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rolamo giovine... Poi, secondo l’indole di lui e il minore o maggior grado di simpatia che mi ispira, lo ammoglio o lo lascio celibe: se ha moglie, apro le porte di casa sua a due battenti e ci fo entrare gente d’ogni sesso e d’ogni età; se è celibe lo mando in casa degli altri. Egli passa così accanto a un numero ragguardevole di persone insulse, con le quali non lo trattengo; finchè trova quel tale o quella tale presso cui mi pare non possa fermarsi senza che accada qualcosa. E se accade, osservo gli eventi nella loro successione e nella logica conseguenza; e passo una settimana, un mese, accompagnando i personaggi del dramma che va svolgendosi, e parlo con loro e li ascolto e li consiglio. Quando personaggi, incidenti, scioglimento, ogni cosa insomma è al suo posto, allora arnva il momento di scrivere la commedia. E allora rileggo i Rusteghi, e non la scrivo» (in Pagine raccolte, Firenze Sansoni, 1912, p. 317-18).
Cosa, ora può rimanere a noi da soggiungere, dopo questo coro di lodi da parte di tanti critici autorevoli su di una produzione, in cui non sapete se più ammirare l’evidenza dei caratteri, o la grande naturalezza, o le grazie insuperabili del dialetto? Fegurarse (per servirci dell’intercalare che adopera Margarita, la moglie di Lunardo) se tantissimi non l’hanno già ascoltata a teatro, o pur letta, o almeno appresone il sunto che ne da lo stesso Goldoni nelle sue Memorie (cap. cit.)! E però, se non altro per la bellezza del vernacolo, ci si consenta ripetere qui quello che in proposito scrivemmo altrove (Musatti. Spunti di dial. venez. nei Rusteghi di G., ne l’Ateneo Veneto genn.-febbr. 1910).
Siamo agli sgoccioli del carnovale, quando anche le ragazze più riserbate sospirano una giornata di lecito svago, una su trecento e sessantacinque. Vi aspira pure Lucietta, la figliuola di Lunardo, che sta con la matrigna aspettando che il padre rincasi (a. I, sc. II). Eccolo ch’entra, e s’avanza bel bello senza aprir bocca.
«Marg. (Velo qua per diana!) (s’alza)
Luc. (El vien co fa i gati). (s’alza) Sior pare, patron.
Marg. Sioria. No se saludemo gnanca? (a Lunardo)
Lun. Laorè, laorè. Per farme un complimento tralassè de laorar?
Luc. Ho laorà fin adesso. Ho deboto fenio la calza.
Marg. Stago a veder, figurarse, che siemo pagae a zornada.
Lun. Vu sempre, vegnimo a dir el merito, me de sempre de ste risposte.
Luc. Ma via, caro sior pare; almanco in sti ultimi zorm de carneval che no ’l staga a criar. Se no andemo in nissun liogo, pazienza: stemo in pase almanco.
Marg. Oh elo no pol star un zorno senza criar.
Lun. Senti che strambazza! cossa songio? Un tartaro? Una bestia? De cossa ve podeu lamentar? Le cosse oneste le me piase anca a mi.
Luc. Via donca, ch’el ne mena un pocheto in maschera...» Ma la matrigna che conosce l’umore del vecchio, esclama tra sè: «Adesso el va zoso!»
Sentite infatti se non trascende sior Lunardo, per il quale andar zoso è la sua specialità:
«E gavè tanto muso de dirme che ve mena in maschera? M’aveu mai visto mi, vegnimo a dir el merito, a meterme el volto sul muso? Coss’ela sta maschera? Per cossa se va in maschera? No me fe parlar. Le pute no ha d’andar in maschera».