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Galanti «di ritornare coi Rusteghi all’aura serena dell’arte sana e vera, dell’ arte che sopravvive al tempo» (C. G. e Venezia nel sec XVIII, p. 242). Pompeo Molmenti trova assai giusto quanto scrisse il Gioberti «che Goldoni si mostrò studiosissimo di una delicata sobrietà, ritraendo i difetti degli uomini nelle sue commedie, fra le quali basti citare i Rusteghi che sono forse l’opera più bella del Menandro italiano» (C. G., Venezia Ongania, 1880, p. 102). «Il capolavoro dei capolavori» li giudica Edgardo Maddalena, «dove si scorge quasi l’allegoria della Venezia d’altri giorni, ancora sana, in lotta coi tempi nuovi che con impronta insistenza battono alla porta; e pur, fuori dell’ allegoria, quadro di meravigliosa evidenza, uno spaccato stupendo; scene che senza il più leggero sforzo si svolgono una dall’altra; caratteri nettamente distinti, anche i più affini» (C. G., nel 2. Centenario della sua nascita. Discorso. Trieste Caprin, 1908, p. 23). Pel nostro Ortolani «quei tiranni domestici sono nella loro stolta infallibilità grandemente colpevoli verso le proprie donne e i propri figli: al pregiudizio della superiorità sacrificano le persone più care. E però l’animo generoso di Goldoni, pronto a tutti gli affetti, rifugge da essi e il poeta dice parole di amore e di bontà ai nuovi Italiani. È bene che i Lunardi e i Simoni spariscano travolti nelle rovine del vecchio mondo: la dottrina della vita è inutile, se nemmeno insegna l’indulgenza e il perdono! Di qui la grande umanità di questo capolavoro» (Della vita e dell’arte di C. G., Venezia, Ist. Ven. d’A. Graf., 1907, p. 109). Isidoro Del Lungo nel suo splendido discorso: Lingua e dialetto nelle commedie del Goldoni, tenuto all’Accademia della Crusca e nel nostro Ateneo (Firenze Tip. Galileiana, 1912), dice ricordarsi da tutti i Rusteghi, che dopo un secolo e mezzo conservano la giovinezza riservata ai capilavori, e riporta la scena di sior Lunardo che catechizza in rusticaggine la moglie, e di siora Felice che sopraffàa col suo spirito e la sua «ciàcola» la rusticaggine del marito sior Canzian, e il duetto tra Lunardo e Simone che rimpiangono il loro buon tempo antico (op. cit. p. 35-38). Al De Gubernatis pare «che nei Rusteghi, specialmente, il Goldoni siasi rivelato uomo di genio, se bene, come accade, egli medesimo non siasi forse mai accorto d’avere in quel capolavoro superato sè stesso» C. G, Corso di lezioni. Firenze, 1911, p. 316). Anche Arturo Graf la ritiene tra le commedie goldoniane «non solo una delle più dilettevoli e delle meglio condotte, ma ancora, per varie ragioni, una delle più importanti» (I Rusteghi ediz. Rasi, p. XV). Dove poi Ferdinando Martini abbia trovato «nel dialogo sconcezze e giuochi di parole così triviali, che oggi basterebbero a mettere un autore al bando delle persone educate» (in: La morale e il teatro, lettura fatta al Circolo filologico di Pisa il 12 aprile 1874, e pubblicata nel suo libro: Al teatro Firenze Bemporad, 1895, p. 17), non ci è riescito scoprire. Fatto sta che più tardi in una lettera diretta a Giuseppe Costelli: Come si scrive una commedia, egli termina colle seguenti parole che ci disvelano eziandio in lui un fervido ammiratore dei Rusteghi: «Tu vuoi sapere come faccio io. Io comincio dal pensare un personaggio, anzi dal ripensare, perchè bisogna che l’abbia visto e osservato nella vita reale e che sappia quali sono i pregi suoi e i suoi difetti, il suo modo di sentire e via discorrendo. Supponiamo un uomo; gli metto nome; un nome conveniente all’età, perchè nel mondo della fantasia io non so imaginare, per esempio, nè un Eugenio vecchio, nè un Gi-