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Men Sior Todero, la vede che quella scrittura sì fatta xe revocada dal fatto.

Tod Ben, e cussì?

Men Se la se degna de accordarme so siora nezza...

Tod Via; gh’è altro?

Men Son pronto a darghe la man.

Tod E no disè altro più de cussì?

Men La comandi.

Tod No m’aveu dito che la torrè senza dota?

Men Sior sì, senza dota.

Tod Mo vedeu? No savè parlar. Sior sì, son galantomo: quel che ho promesso, ve mantegno: ve la darò.

Alla buon’ora! Zanetta e Meneghetto si sposano; tutti sono contenti: è un grido d’allegria generale.

E il padre della sposa (chiederete), sior Pellegrin? Eccolo appunto ch’è or ora capitato, e che in aria di bravo, per la prima e forse unica volta in vita sua, grida: «Coss’è? Cossa xe sta? Ghe xe strepiti, ghe xe sussuri? Me maraveggio; son qua mi; son paron anca mi». — Cui Todero: «Martuffo!» — E Marcolina: «Saveu che strepiti, saveu che sussuri che ghe xe? Che vostra fia xe novizza». — «Con chi?» domanda. E Marcolina: «Con sior Meneghetto». — «No ve l’oggio dito» (le risponde quel tanghero, ripigliando la sua flemma abituale) «che sarave andà tutto ben?» — Risposta all’altezza di lui e insieme altro spunto giocondissimo.

Ma cosa non v’ha da ammirare in questa stupenda commedia in cui l’intreccio è tenue, ma il dialogo tanto fluido e festivo; i tipi del sordido Todero e dell’abulico Pellegrin scolpiti da artefice sommo; commedia che delle goldoniane Luigi Carrer ascrisse tra le popolari, soggiungendo che anche a giudizio dei nemici i più dichiarati dell’autore, questa e l’altre «in cui prese a dipingere le classi della società più rimesse, facendo uso del nazionale dialetto, hannosi a riputare per le migliori»? (Saggi su la vita e su le op. di C. G. III, 96). Infatti lo stesso Carlo Gozzi non potè a meno di scorgervi «un’abilità indicibile » nel dialogo (Mem. inut. I, 280); e se con la sua consueta acrimonia la battezzava farsa buffonesca egualmente che i Rusteghi e le Baruffe Chiozzotte (!), non lasciò nella penna che però si replicavano tutte con buona fortuna in que’ tempi perocchè l’umanità cercava «per sollevarsi più il solletico delle risa, che la commozione de’ piagnistei» (Op. Ed. Zanardi T. XIV p. 140). Anche pel Meneghezzi, Goldoni in siffatta specie di componimenti non ha né avrà mai chi lo agguagli «(Della vita e delle op. di C. G., p. 128)». Il nostro Galanti (C. G. e Venezia nel sec. XVIII, p. 428) e il nostro Ortolani (Della Vita e dell’arte di C. G., p. 114) giudicano il Todero un capolavoro. Per Guerzoni, il nostro «grande scrutatore e scopritore di caratteri comici, fece dei misantropi, bisbetici e atrabiliari una trilogia, che comincia col Todero, si svolge nei Quattro Rusteghi, dove il tipo è suddiviso in quattro caratteri, e finisce col Burbero benefico, con questo divario che il primo si stacca da tutti, essendo più rustico che buono, e quindi meno simpatico degli altri» (Il Teatro Ital. nel sec. XVIII p. 225). Ernesto Masi lo calcola una delle opere maggiori, che colla trilogia della Villeggiatura, Gl’Innamorati, La Casa nova, Le Donne de casa soa, Il Campiello, Le Baruffe Chiozzotte e I Rusteghi,