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IL BUON COMPATRIOTTO 357

SCENA V.

Costanza e detta.

Costanza. Patrona, siora Bettina.

Isabella. Serva, signora Costanza.

Costanza. Ben venuta. Quanti anni e quanti mesi che no se vedemo?

Isabella. S’accomodi. Saranno dieci anni che non si vediamo.

Costanza. Se recordela più della so cara amiga? Della so cara Costanza? (siedono)

Isabella. Non vuole che me ne ricordi? Eravamo insieme spessissimo; mi par l’altr’ieri che si passavano insieme i più bei giorni del mondo.

Costanza. Ma! i anni passa. Ela xe qua che la par un fior, e mi poverazza m’ho maridà, son vedua, e gh’ho tanti travaggi che no ghe posso fenir de dir.

Isabella. Mi pare per altro che i travagli non l’abbiano estenuata.

Costanza. Cossa disela? In bon ponto lo possa dir1, con tutte le mie disgrazie me mantegno in ton2.

Isabella. Questo è effetto di mente sana, e di felice temperamento.

Costanza. Mo come che la parla pulito3! Parlela toscana?

Isabella. Per necessità devo parlare toscano. Sono stata dieci anni a Livorno, ed ella sa che da giovanette s’imparan presto le lingue.

Costanza. Le lingue! e nu disemo le lengue. No gh’è miga gran differenza!

Isabella. Finalmente tanto il toscano, quanto il veneziano, sono tutti due linguaggi italiani.

Costanza. Certo, certo, la dise ben. Ma el napolitan nol xe miga Italia, nevvero?

Isabella. Ah sì signora. Anche il napolitano è italiano benissimo. Non lo sa che Napoli è nell’Italia?

  1. Vedasi più avanti la nota del Goldoni stesso, nel Sior Todero bronlolon, atto I, scena 3.
  2. «Esser in ton, esser fresco e in buono stato, star bene»: Boerio.
  3. Bene.