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IL BUON COMPATRIOTTO 353

SCENA III.

Rosina e Leandro.

Leandro. Questo vostro servitore mi pare un uomo particolare.

Rosina. È ammirabile la sua fedeltà. Con altri non mi sarei compromessa d’intraprendere questo viaggio.

Leandro. Venite voi di lontano?

Rosina. Da Milano, signore.

Leandro. Per trattenervi in Venezia?

Rosina. Può essere qualche tempo.

Leandro. Per piacere, o per interessi?

Rosina. E per l’uno e per l’altro.

Leandro. Scusatemi. Siete voi maritata?

Rosina. Sono vedova.

Leandro. In Venezia avete amici, avete parenti?

Rosina. Signor mio garbatissimo, voi m’avete fatto delle belle interrogazioni. Vi siete compiaciuto benignamente di voler saper tutt’i fatti miei; poss’io prendermi la libertà di voler saper qualche cosa di voi?

Leandro. Sì signora, è giustissimo, e vi dirò tutto sinceramente. Io mi chiamo Leandro de’ Bilancioni. Di patria bolognese, ma allevato in Roma. Cittadino di nascita, e non senza qualche favore della fortuna. Mio padre è dottor legale, e sta da molti anni in Venezia, dirigendo gli affari di due de’ nostri patrizi.

Rosina. Siete voi ammogliato?

Leandro. Non lo fui finora: ma si vorrebbe che quanto prima io lo fossi. Mio padre mi chiama in Venezia. So che ha intenzione d’accompagnarmi colla figlia di certo signor Pantalone de’ Bisognosi, mercante. So che ha nome Isabella, so che fu allevata in Livorno. Ma non l’ho veduta, non so chi sia, e non vorrei avere da sagrifìcar a mio padre la mia pace, la mia libertà, il mio cuore.

Rosina. Siete voi nemico del matrimonio?

Leandro. Mi par di no veramente. Ma vorrei che la sposa mia fosse di mio genio.