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IL BUON COMPATRIOTTO 351

Rosina. Credevate ch’io fossi sola?

Leandro. Per dirla, me ne voleva maravigliare.

Rosina. Sarebbe da ridere che una donna di condizione viaggiasse sola.

Leandro. Scusatemi; il vostro grado si può sapere?

Rosina. Perchè no? Io sono la contessa di Buffalora.

Leandro. (Si conosce dall’aspetto e dal tratto, che è nata nobile).

Traccagnino. (Piano a Rosina: cosa le viene in testa di farsi creder contessa.)

Rosina. (Gh’ho le mie rason; lo fazzo col mio perchè. Secondème, e no dubitè gnente). (a Traccagnino)

Leandro. Quest’uomo, signora Contessa, mi figuro che sarà il vostro servo.

Rosina. Sì certo; è il mio servitore.

Traccagnino. (Tarocca, e dice piano a Rosina, che non vuol passare per servitore.)

Rosina. (Tasè, abbiè pazenzia: za nol ve cognosse; no perdè gnente del vostro).

Traccagnino. (Insiste che non vuole, e scoprirà tutto.)

Rosina. (Tasè, no me ruvinè, no me precepitè. Soffrì per mi e per la patria).

Traccagnino. (Che non vuole far questo disonore ai suoi parenti; che sono cent’anni che fanno a Bergamo i ciabattini, e non vuole passar per un servitore.)

Leandro. E che cos’ha, signora Contessa, il vostro servo, che pare sia infastidito di qualche cosa?

Rosina. Dirò, signore, quando siamo smontati per desinare, egli è restato in burchiello a far la guardia alla roba: s’è addormentato, e non ha mangiato, e ora si lagnava meco che muor di fame.

Traccagnino. (Stupisce del bel talento.)

Leandro. Signora, s’egli si degna, e se voi l’accordate, io ho da soccorrerlo mirabilmente. Non essendo io pratico di questo viaggio, e non sapendo che si pranzasse in buona compagnia, come abbiamo fatto, mi sono a Padova proveduto del biso-