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236 ATTO QUARTO

SCENA VII.

Milord e le suddette.

Milord. Ah! qual perfida lingua, qua! lingua indegna può macchiar di sì nera colpa il mio nome, l’onor mio, la mia fede?

Lindana. Sostienmi: non mi reggo in piedi. (a Marianna, appoggiandosi)

Marianna. Un cane, una tigre non avrebbe il cuore che voi avete. (a Milord, sostenendo Lindana)

Milord. A me un tale insulto? In faccia mia si ardisce ancora di sostenere una calunnia sì orrida, sì vergognosa?

Marianna. E chi era altri che voi informato della padrona?

Milord. Lo sarà stato meglio di me chi avrà meritato prima la sua confidenza; lo sarà per lo meno colui che collo sborso di cinquecento ghinee si è fatto un merito nel cuore della tua padrona.

Lindana. Non insultate una sventurata nella parte almen dell’onore. Il denaro che questa mane mi ha offerto Friport, fu da me ricusato. (con mestizia)

Milord. Vorreste farmi anche in ciò travedere. L’ho veduto io stesso depositar il danaro nelle mani del ministro di Corte, per liberarvi dalla carcere in cui vi volevano rinserrata.

Lindana. Ah misera! Ah disperata ch’io sono! A me carcere? A me un tale sfregio? Evvi per me chi ardisce pagar denaro? Io la favola del paese? Io il ludibrio del mondo? Oh rossore! Oh vergogna! Non vo’ più vivere; non vo’ più soffrire. Un ferro, un veleno, una morte: una morte per carità!

SCENA VIII.

Fabrizio e i suddetti.

Fabrizio. Cosa sono questi rumori?

Milord. Ah! Fabrizio, disingannatele. Sono creduto io il traditore.

Fabrizio. Acchetatevi, signora mia. Ho saputo ogni cosa. So donde il male è venuto. So gli equivoci che si son presi. Vi