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230 ATTO QUARTO

Friport. (Povera fanciulla! me ne dispiace infinitamente).

Fabrizio. Che vuol dire? Che cosa è questa? ti ella forse in sospetto? Mi maraviglio. Ella è onestissima, e nel mio albergo non alloggiano avventuriere.

Messo. Con me non vagliono queste ragioni. Serbatele per chi ha da farne la cognizione. Io ho da eseguire gli ordini che mi son dati. O venga meco in prigione, o dia una sicurtà di stare agli ordini della Giustizia.

Fabrizio. Mi farò io mallevadore: la mia casa, i miei beni, la mia persona.

Messo. La vostra persona è lo stesso che niente. La casa può essere che non sia vostra; e i vostri beni, dove sono fondati? Le parole non servono. Vi vogliono capitali, o contanti.

Friport. Ehi! galantuomo (se non isbaglio), venite qui. Io mi chiamo Friport; son conosciuto alla Borsa; son negoziante; ho de’ fondi, de’ capitali: mi rendo io cauzione della fanciulla.

Messo. Perdonatemi, signore, io non vi conosco.

Friport. Aspettate. (tira fuori una lunga borsa) Questi li conoscete? (mostrando la borsa piena d’oro)

Messo. Sì, signore: depositate cinquecento ghinee, e sottoscrivetevi.

Friport. Cinquecento, mille, duemila, e quanto bisogna. Ma a chi devo depositarle?

Messo. Nelle mie mani.

Friport. Voi non vi fidate di me, ed io non mi fido di voi; le depositerò al magistrato.

Messo. Andiamo dunque.

Friport. Andiamo.

Fabrizio. Ah! signor Friport, questa è una carità fioritissima.

Friport. Non parlate: lo faccio assai volentieri. (incamminandosi)

Fabrizio. E di più avete ancora da incomodarvi colla persona.

Friport. Chi non s’incomoda, non fa servizio. Fate che il mio caffè si mantenga caldo. Verrò a terminare di prenderlo. (parte col messo)