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LE AVVENTURE DELLA VILLEGGIATURA | 131 |
per la mia importunità discacciato. Ma voi siete tanto gentile, che mi soffrite. Sapete la ragione che mi fa ardito, e la compatite.
Giacinta. (Non so che cosa abbiano le sue parole. Paiono incanti, paiono fattucchierie).
Guglielmo. S’io credessi che la mia persona vi fosse veramente molesta, o ch’io potessi pregiudicarvi, a costo di tutto vorrei in questo momento partire; ma esaminando me stesso, non mi pare di condurmi sì male, che possa io produrre verun disordine, nè alterare la vostra tranquilità.
Giacinta. (Eh! pur troppo mi ha fatto del male più di quello che egli si pensa).
Guglielmo. Signora, per grazia, due parole a profitto di quel che vi ho detto.
Giacinta. Quest’anno non ci possiamo discontentare. Il bel tempo ci lascia godere una bella villeggiatura.
Guglielmo. Ciò non ha niente che fare con quello ch’io vi diceva.
Giacinta. Che cosa dite della cena di ieri sera?
Guglielmo. Tutto è per me indifferente, fuor che l’onore della vostra grazia.
Giacinta. Non so se il nostro pranzo di questa mattina corrisponderà al buon gusto del trattamento, che abbiamo avuto iersera.
Guglielmo. In casa vostra non si può essere che ben trattati. Qui si gode una vera felicità, e s’io sono il solo a rammaricarmi, è colpa mia, non è colpa di nessun altro.
Giacinta. (Si può dare un’arte più sediziosa di questa?)
Guglielmo. Signora Giacinta, scusatemi se v’infastidisco. Mi date permissione ch’io vi dica una cosa?
Giacinta. Mi pare che abbiate parlato finora quanto avete voluto. (con un poco di caldo)
Guglielmo. Non vi adirate; tacerò, se mi comandate ch’io taccia.
Giacinta. (Che mai voleva egli dirmi?)
Guglielmo. Comincio ad essere più sfortunato che mai. Veggio che le mie parole v’annoiano. Signora, vi leverò l’incomodo.
Giacinta. E che cosa volevate voi dirmi?
Guglielmo. Mi permettete ch’io parli?