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122 ATTO SECONDO


Brigida. Ma perchè mai? È ella pentita d’aver a sposare il signor Leonardo?

Giacinta. No, non mi pento di questo. Leonardo ha del merito, mi ama teneramente, e non è indocile da farmi temere di essere maltrattata. Mi pento bensì, ed amaramente mi pento, d’aver insistito ad onta di tutto di voler con noi il signor Guglielmo, e di aver permesso che mio padre lo abbia alloggiato in casa.

Brigida. Si è forse perciò disgustato il signor Leonardo?

Giacinta. Ma lascia stare il signor Leonardo, ch’egli non c’entra. Egli soffre anche troppo, ed arrossisco io per lui della sua sofferenza.

Brigida. Ma che cosa le ha fatto dunque il signor Guglielmo? Mi pare un giovane tanto onesto e civile...

Giacinta. Ah! sì, per l’appunto, la sua civiltà, la sua politezza; quella maniera sua insinuante, dolce, patetica, artifiziosa, mi ha, mio malgrado, incantata, oppressa, avvilita. Sì, sono innamorata, quanto può essere donna al mondo.

Brigida. Come, signora? Ma come mai? Se di lui mi ha detto tante volte, non ci pensava nè poco, nè molto?

Giacinta. È vero, non ho mai pensato a lui, l’ho sempre trattato con indifferenza, e ho riso dentro di me di quelle attenzioni ch’egli inutilmente mi usava. Ma oimè! Brigida mia, quel convivere insieme, quel vedersi ogni dì, a tutte l’ore, quelle continue finezze, quelle parole a tempo, quel trovarsi vicini a tavola, sentirmi urtare di quando in quando (sia per accidente, o per arte), e poi chiedermi scusa, e poi accompagnare le scuse con qualche sospiro, sono occasioni fatali, insidie orribili, e non so, e non so dove voglia andare a finire.

Brigida. Ma ella non ne ha colpa. È causa il padrone.

Giacinta. Sì, è vero, vo studiando anch’io di dar la colpa a mio padre. Da lui è venuto il primo male; ma toccava a me a rimediarvi, ed io sola poteva farlo, ed io lo doveva fare; ma la maledetta ambizione di non voler dipendere, e di voler essere servita, mi ha fatto soffrire i primi atti d’indifferenza, e l’indifferenza è divenuta compiacimento, ed il compiacimento passione.