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denza tra le due. Con buona pace di Paul de Musset, gran denigratore del Goldoni e grande ammiratore del Gozzi, perchè non in grado di penetrare lo spirito di nessuno dei due, l’opera del Nostro (ch’egli afferma d’aver visto a Venezia nell’ottobre dei 1843 e in quell’autunno a Venezia non si diede!) non è «una trasformazione grossolana» (C. Gozzi, Mémoires écrits par lui même. Traduction libre par P. d. M., Paris, 1855, p. 24). Bene rimbeccò l’altezzosa e vuota critica Achille Neri e con l’usata precisione concluse: «gli Innamorati nella favola, e nello svolgimento e nei caratteri, sono così diversi dai Dépit amoureux, da non poter cadere in mente di chicchessia il pensiero di togliere al Goldoni il merito della originalità» (Una bugia di Paolo de Musset. Gazzetta letteraria, Torino, 7 luglio 1888). I rapporti che corrono tra gli Sdegni moliereschi e più commedie del Goldoni (Innamorati, Servitore di due padroni. Smanie, trilogia di Zelinda e Lindoro) son definiti assai felicemente dal Toldo nulla più di «un’ispirazione leggera, degna d’un artista che si rispetta e che ferma sulla carta, nella foga del comporre, certe reminiscenze, che in lui si sono immedesimate, ch’egli ha rielaborate, e che ormai sono sue» (L’oeuvre de Molière et sa fortune en Italie. Torino, 1910, p. 390).

Di fronte al Dépit, sul quale grava un faticoso imbroglio di schietta fattura cinquecentesca (tolto all’Interesse di Niccolò Secchi), questa commedia del Goldoni corre agile e snella. Figure ed episodi — megalomania di Fabrizio, l’impronto insinuarsi di Roberto, la sciocca ingenuità di Tognino — concorrono unitissimi a muovere l’altalena degli amori d’Eugenia e Fulgenzio. E i due innamorati spiccano dal vario sfondo palpitanti di umanità: — il giovine, nel suo affetto profondo, fedele a se stesso fino all’ultimo; Eugenia, figura stupendamente colta della ragazza dispettosa, in cui il puntiglio vince l’amore. Perchè non a tutti come a Lisetta appare sicuro che tra le passioni della sua padroncina l’amore domini (a. III, sc. I). Anche in questa figura — artisticamente la gloria della commedia — come in altre sorelle minori goldoniane, la nota antipatica, fatta di puntiglio e di calcolo, è bene in vista e il cuore, poverino, se non è del tutto assente, è sacrificato. Chi appunta il teatro goldoniano di misoginismo, può ben farsi forte di questo carattere. Il tuffo che nelle ultime scene da Eugenia nel sentimento — a tutto scapito dell’unità dei personaggio e senza convincere chi vede e sente della sua sincerità — non è evidentemente che la solita concessione imposta dal lieto fine al teatro del tempo.

Al difetto di poca coerenza nel carattere d’Eugenia altri aggiunge quello d’esagerazione nella figura di Fabrizio. Ma quando la gustosa descrizione ch’è nelle Memorie non sia semplice eco della commedia stessa, bensì fedele ritratto del curioso abate, dove resta il difetto? Più giusta la critica mossa al personaggio del conte Roberto, ch’egli piovuto in una famiglia del tutto nuova si faccia innanzi con importuna precipitazione e chieda senz’altro in moglie la ragazza (Lamma, Prefazione agli Innamorati. Città di Castello, 1908, pp. 11, 12).

Se mai, lievi difetti, compensati — e quanto! — da pregi di vita comica, di un comico profondo, frutto del più intenso studio della natura. La voce di rari critici malcontenti resta soffocata nel generale larghissimo consenso. Come poteva A. Ratti comprendere questa tra «le commedie romanzesche e sentimentali» (C. G. Discorso, Asti [1874]), Raffaelle Nocchi tra quelle «viziate dal sentimentalismo» e fraintenderne poi soggetto e psiche così da scrivere: «... in