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SCENA VIII.

Lucrezia, Cavolo e detti.

Lucrezia. Serva di lor signori. Perdonino l’ardire.

Sono il signor Alì venuta a riverire.
Mi ha detto il conte Lasca, ch’egli è un signor garbato;
Messer Nibbio m’ha detto, ch’hanno di me parlato,
E che volea venirmi a favorire a casa,
Ma di venir io stessa da lor fui persuasa.
Non vengo ad offerirmi, ch’io vaglio nulla o poco,
Ma una ragion più nobile mi ha spinto in questo loco:
Il desio di conoscere un uom particolare.
Che vuol la nostra musica portar di là dal mare,
E ringraziarlo anch’io di tanta propensione,
Onde è beneficata la nostra professione.
Tonina. (Parla coi slinci e squinci).
Annina.   (Che signora compita!)
(ironicamente)
Lucrezia. (Non uso i miei riboboli, per essere capita). (a Cav.)
Cavolo. (Il turco certamente capirla non potria). (a Lucrezia)
Pasqualino. (Come attento la guarda). (a Tonino)
Alì.   (Bella fisonomia!) (a Lucrezia)
Favorir di seder.
Lucrezia.   Se comanda così.
(siede al mezzo del canapè)
Tonina. Anca mi vôi sentarme.
(siede presso Lucrezia alla dritta dove voleva sedere Al, che passa per sedere dall’altra parte. Annina gli leva il posto.)
Annina.   E me an vui star in pì.
Pasqualino. (Siede.)
Alì. Per donne aver rispetto più che no meritar.
Pasqualino. Sedete qui, signore.
Alì.   No, no, non comodar;
Star avvezzo Turchia sentar su mio sofà.
Sopportar volontiera graziosa inciviltà.