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E ancor se la ricordano quell’aria così bella:

Spiegando i suoi lamenti sen va la tortorella.
Conte. Di sentir quest’arietta poss’essere graziato?
Lucrezia. Vi servirei, signore; ma il cembalo è scordato.
Conte. Che importa? Senza cembalo sentirvi io mi contento.
Lucrezia. Oh questa è madornale! cantar senza istrumento?
Credete, signor Conte, ch’io sia di quella razza,
Che va cantando all’aria le canzonette in piazza.
Conte. Capperi! siete calda? in collera montate?
Son vostro servitore, cantiate o non cantiate!
Ma io per vostra regola stimo le virtuose.
Che con i galantuomini non fan le preziose.
Lucrezia. Oh, io non son di quelle. Per compiacer son nata.
Conte. Contentatemi dunque.
Lucrezia.   Davver son raffreddata.
Conte. Brava, me l’aspettavo. La consueta scusa,
Che dalle virtuose spessissimo si usa.
Ma il raffreddor, per solito, che in più di lor prevale,
È che non san la musica, o cantano assai male.

SCENA VI.

Nibbio e detti.

Nibbio. Riverente m’inchino al merto di madama.

Servo del signor Conte.
Lucrezia.   Quest’uom come si chiama?
Conte. Questi è Nibbio, signora! un galantuom provato.
Direttor de’ teatri, famoso e rinomato.
Nibbio. Bontà del signor Conte.
Lucrezia.   Il locandier diceva,
Che un certo direttore conoscermi voleva.
Siete voi forse quello?
Nibbio.   Son io, per obbedirla,
In ogni congiuntura disposto per servirla.