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52 | ATTO TERZO |
SCENA III.
Il Conte Orazio, don Emilio e la suddetta.
Emilio. Chiamomi fortunato, (al Conte)
Della vostra amicizia veggendomi onorato.
Le lingue maliziose, che van per ordinario
Seminando discordie, mi dissero il contrario.
Creder mi fece alcuno, che voi nel nuovo stato
Pentito vi chiamaste d’avermi per cognato.
Il mal presto si crede; uom delicato io sono.
Or son disingannato, e chiedovi perdono.
Livia. (Pronto e scaltro pretesto!) (da sè)
Conte. Esser può, che a malizia
Spargere alcun volesse fra noi l’inimicizia.
Detto mi fu di voi, che con disegno avaro
Mi procuraste insidie di un inimico al paro.
Livia. Ciascuno ingrazianarsi tenta pei fini sui;
Voi non avete al mondo amico più di lui. (al Conte)
Emilio. Sa il ciel. Conte amatissimo, di cuor se ho giubbilato,
Allor che rimaneste dal zio beneficato.
Ma con egual cordoglio vi vidi immantinente
Caduto nelle mani di trista e falsa gente.
Un servitor ribaldo vi regge e vi consiglia,
Un amico inonesto nel debole vi piglia.
Tristi mezzani indegni e falsi mercadanti
V’insidiano l’onore, v’insidiano i contanti;
Ed una donna accorta, che già previde il tutto,
Aspetta di raccogliere di sue menzogne il frutto.
Qual innocente agnello, ricco di nuove lane,
Là vi minaccia il lupo, qua vi circonda il cane.
Dell’arte e dell’inganno bersaglio divenuto,
Da chi fuor che da noi, vi promettete aiuto?
Livia. Io son del vostro sangue, ei lo sarà fra poco:
Fidatevi di noi; noi troncheremo il gioco.