Ferdinando. (Sto a veder della scena qual sia la conclusione.
Quei nastri maledetti mi han posto in confusione).
Lucietta. Patron.
Ferdinando. Servo divoto.
Bettina. Serva.
Ferdinando. Padrona mia.
Lucrezia. La fa delle so grazie una gran carestia.
Ferdinando. Non capisco, signora.
Lucrezia. Me capisso ben mi.
Ma delle amighe vecchie no se se degna pi.
Ferdinando. In Venezia, signora, non ho amicizia alcuna.
Se acquistar ne potessi, sarebbe una fortuna.
Lucrezia. S’avemo cognossù in paese lontan.
Ferdinando. Dove?
Lucrezia. Se no m’inganno, o a Torcello, o a Buran.
Ferdinando. Non so questi paesi dove siano nemmeno.
Fatemi la finezza dirmi chi siete almeno.
Lucrezia. Mi gh’ho nome Pandora.
Ferdinando. Pandora? e voi? (a Bettina)
Bettina. Marfisa.
Ferdinando. Due nomi veramente da muovere alle risa.
Brave, signore mie; veggo che volentieri
Si usa da voi talvolta burlar coi forastieri.
Piacemi estremamente nel vostro sesso il brio.
Ma però vi avvertisco che so burlare anch’io.
Lucrezia. La falla, mio patron; no se usa in sta città
Burlar i forestieri. Xelo mai sta burlà?
Ferdinando. E come! e in che maniera! Volete voi sentire
Se mi han ben corbellato? or ve lo fo capire.
Vi leggerò un viglietto, che affè vale un tesoro.
(Scoprirò se per sorte l’ha scritto una di loro).
Ferdinando adorabile. A me?
Lucrezia. Nol xe ben ditto?
Ferdinando. Vi par ch’io sia adorabile?
Lucrezia. Se sa chi ghe l’ha scritto?