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LA SPOSA SAGACE 553

NOTA STORICA


Ai 5 luglio del 1758 il Goldoni scriveva da Venezia a Modena, all’ab. G. B. Vicini: «Domani vado un poco in villa a respirare, dopo due commedie novellamente finite: La donna di governo e la Sposa sagace» (Rivista di Roma, 10 febbr. 1907, p. 65). Nei Notatorj del Gradenigo (presso il Museo Correr di Venezia) si legge alla data 13 ottobre dello stesso anno: «Nel Teatro di S. Luca si rappresenta la Sposa sagace. Commedia composta da C. Goldoni». Resta così confermato che la recita ebbe luogo «nell’Autunno dell’Anno 1758» (v. ed. Pitteri), ma non già durante il viaggio dell’autore a Roma, come raccontano le Memorie (P. 2, ch. XL). L’esito si sa dalla prefazione che fu soddisfacente.

La stessa prefazione fa notare ciò che vi ha «di nuovo e di capriccioso» nella presente commedia. Non vi troviamo più il tema solito del matrimonio interrotto, come per esempio nello Spirito di contradizione, poichè fin dal primo atto il Conte dà l’anello di sposo a donna Barbara alla presenza di due servi testimoni: «ma qui appunto e dove ha principio l’azion principale di una Sposa sagace, impegnata ad occultare il suo stato in faccia del Mondo, in faccia ai Parenti, e collo Sposo al fianco». Per questo il primo atto ha scarsa importanza, e un autore moderno lo avrebbe soppresso. Non serve nemmeno a delineare il carattere dei quattro personaggi che soli vi prendono parte, perchè di servi cadenti dal sonno abbonda il teatro, e i due sposi, privi di rilievo d’arte, non conoscono il linguaggio dell’amore.

La sagacia di donna Barbara comincia dunque a manifestarsi nelle ultime scene dell’atto secondo, e forma essa l’originalità del dramma, come anche presta il titolo alla commedia (rammentiamo nell’autunno del 1757, sul teatro di Sant’Angelo, la Nuora sagace dell’ab. Chiari). Questo difficile carattere di donna, ingenua e semplice in apparenza fino alla scimunitaggine, fu trattato dal Goldoni con finezza, sebbene non ne risulti una creazione veramente grande. Donna Petronilla, la giovane matrigna, che ostenta la vana nobiltà del sangue (fuori del teatro goldoniano, basti rammentare la Lucrezia del Viluppo di J. A. Nelli e la moglie di George Dandin) e circondasi d’una corona di falsi adoratori, è un po’ volgaruccia con quel suo formidabile appetito. Così parve anche al poeta tedesco Zaccaria Werner, che vide recitare la commedia nel 1809 a Bologna (Schùtz, Z. Werners Biographie und Charakteristik etc, Grimma, 1841, 1, 215). L’Albertazzi ne fece addirittura un personaggio patologico (Ad. Albertazzi, Patologia goldoniana, in Flegrea, 20, V, 1899, p. 125). Un po’ caricato don Policarpio (la parte era affidata al brighella Ant. Martelli, che vi si distinse: v. Bartoli, Notizie istoriche de’ comici italiani ecc.), il solito marito bonario, il solito uomo di stucco, ripetuto con felice vena, che il Goldoni non si stanca di far girare a tondo per mostrarcene da ogni lato il ridicolo. Quando alla fine del terzo atto si lagna della buaggine della figlia, e il servo per contro gli insinua qualche sospetto, uno scoppio di riso da tutto il teatro