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340 ATTO QUINTO
Cavaliere. Guardate, caro amico, se fortunato io sono,

Se di quel cor gentile fu generoso il dono.
Io nemmen ci pensava, per dir la verità:
L’amarla avrei creduto una temerità.
Ella, non so dir come, tanto si accese e tanto,
Che per me fu veduta a distillarsi in pianto.
Baronessa. Come? che cosa dite? Io prima? signor no.
Primo fu il Cavaliere, me l’hanno detto, e il so.
Io non ho mai pensato a amare in vita mia:
Amor fino a quest’ora non so dir cosa sia.
Cavaliere. Come! non foste voi, signora Baronessa,
Che dirmi l’amor vostro pregato ha la Contessa?
Baronessa. Non è ver; la Contessa disse che il vostro core,
Appena mi vedeste, arse per me d’amore.
Io mi mostrai lontana da entrare in questi guai.
Ma tanto mi ha pregato, che alfin mi contentai.
Armidoro. La cosa, miei signori, per verità è curiosa.
La Contessa, il sapete, è donna capricciosa;
Avrà d’innamorarvi per questa via pensato.
Cavaliere. Vel protesto, signora, io son mortificato.
Ho di voi quella stima che meritate, è vero,
Ma il piacer ch’io sperava, per questa via non spero:
Se qual io vi credeva, accesa or non vi sento,
Non vorrei che s’avessimo a unir per complimento.
Baronessa. Se non vi piace, addio. (con disprezzo)
Cavaliere.   Se voi non ci pensate.
Dunque è sciolto l’impegno. Vi riverisco.
(in atto di partire)
Baronessa.   Andate. (come sopra)

SCENA II.

La Contessa e detti.

Contessa. Dove andate, signore? (al Cavaliere)

Cavaliere.   Dove mi pare e piace.
Contessa. Signor, dove apprendeste a favellar si audace?