Dopo che ieri sera da lei mi ho licenziato,
Io so che il Cavaliere in queste soglie è entrato.
Martorino. Come ciò dir potete?
Capitano. Parlo con fondamento,
Non macchino sospetti, non sogno e non invento.
Appena ieri sera uscii di questo loco,
Parvemi sentir gente e mi trattenni un poco.
Veggo un uom che alla porta accostasi bel bello;
L’uscio ricerca, il trova, poi suona il campanello.
Gli aprono, e mentre il piede accelerar mi appresto,
Entra, la porta è chiusa, e sulla strada io resto.
Ma nell’entrar ch’ei fece, tanto potei vedere,
Quanto bastò a comprendere, ch’ei fosse il Cavaliere1.
Martorino. Eh signor capitano, l’amor, la gelosia
Vi ha fatto questa volta scaldar la fantasia.
Son giovane sincero, credete a quel ch’io dico:
Quel che entrar qui vedeste, fu il baron Federico,
Quel cavalier romano, che colla figlia ancora,
Della padrona in casa qual ospite dimora.
Egli entrò poco dopo che voi di qua partiste;
Voi v’ingannaste al buio, e sospettare ardiste.
Capitano. Dunque il Baron fu quello che in quel momento
è entrato?
Martorino. Certo, ve l’assicuro.
Capitano. Ben, mi sarò ingannato.
Ma però non m’inganno, e ognun lo può vedere,
Ch’ella sopra d’ogn’altro distingue il Cavaliere.
Martorino. Eppure ancora in questo credo facciate errore.
La padrona conosco, conosco il di lei cuore;
Ella coltiva tutti, perchè nessun si lagni.
Ma in materia d’amore li fa tutti compagni,
E chi di lei aspira a divenir sovrano.
Credo che perda il tempo, e si lusinghi invano.
- ↑ Nelle edd. Guibert-Orgeas. Zatta ecc. è stampato: un cavaliere.