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268 ATTO QUINTO
Ma dell’amante in faccia la sua ragion non vale.

Abbastanza, Contessa, giustificata or siete.
Ma il cavalier... (verso don Paol., mostrando sdegno)
Paolino.   Signore.... (al Cavaliere)
Cavaliere.   Io vuò parlar.
(a don Paolino, con finto sdegno)
Conte.   Tacete, (a don Paolino)
Cavaliere. Il cavaliere amante per gelosia venuto
Del rival fra le soglie, soffrir non ha potuto.
E nell’atto di perdere l’amabile tesoro,
Disse alla sua diletta, io vi abbandono e moro.
Le follie degli amanti so che orribili sono;
Il suo destin compiango, e la follia perdono.
Quello di cui mi lagno, che merita vendetta,
Quello che risarcire all’onor mio si aspetta,
Conte... (affettando sdegno)
Conte.   Non ne so nulla.
Cavaliere.   È la rea diffidenza,
Con cui ad un amico negar la confidenza.
Perchè non isvelarmi il loro cuore oppresso?
Avrei le brame loro sollecitate io stesso;
Perder temea la dama del testamento il frutto?
Se la metà non basta, son pronto a ceder tutto.
Si può con un accordo render comune il danno;
Il zio non ha creduto di rendersi tiranno,
Ed io che non coltivo un animo rapace.
Non curo le ricchezze a costo della pace.
Quello che non si è fatto, facciasi pur, se vuole,
E rispondano i fatti al suon delle parole.
Ma pure una vendetta al torto che mi han fatto,
Conte, ve lo protesto, vuò fare ad ogni patto.
Io che mai per costume son solito adirarmi,
Questa volta lo sdegno mi sforza a vendicarmi.
Ecco la mia vendetta. Quegli occhi sì vezzosi,
(tenero affettato)