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230 ATTO TERZO
Mi piacciono quegli occhi, e ancor nel grado mio

Ho piacer di vederla, e mi diverto anch’io.
Ma quel don Paolino con dispiacer lo veggio,
E il conte Policastro lo soffro ancora peggio.
Ma a lor tanti dispetti farò per parte mia,
Che per disperazione li vederò andar via.
Dispensar i padroni possono i lor favori,
Ma gli ordini eseguire sta in man dei servitori;
E quando i forastieri a genio non ci vanno,
Si servon per dispetto, e disperar si fanno.
Figliuoli, questa mane abbiamo a desinare
Gente, che a questa tavola non merta di mangiare.
A quei due, che vi ho detto, fate penare il bere,
Dietro la loro sedia non stiavi alcun staffiere;
E se alcuno di loro vi comandasse ardito,
Col tondo o col bicchiere macchiategli il vestito.
Se vi pare che un piatto gli piaccia estremamente,
Levategli dinanzi il tondo immantinente.
E s’egli lo trattiene, allor che se n’avvede,
Mostrando inavvertenza, zappategli sul piede.
Se il caffè vi domandano, ovver la cioccolata.
Mostrate non intender che l’abbiamo ordinata.
E all’ora del dormire, quelli che già vi ho detto,
Trovin la stanza ingombra, e mal composto il letto.

SCENA II.

Il Conte Policastro e detti.

Conte. Buon giorno, galantuomini, ditemi in cortesia:

Speriam che quanto prima in tavola si dia?
Fabrizio. Quando servir si tratti vossignoria illustrissima.
Faremo che la tavola sia pronta, anzi prontissima.
Conte. Mi farete piacere. Parmi avere appetito.
Fabrizio. Merita il signor Conte di essere ben servito.