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214 ATTO SECONDO
Cavaliere. Nemmen per farmi grazia?

Fabrizio.   Vuò fare il mio dovere.
Cavaliere. Ma non son io il padrone?
Fabrizio.   E io non son cameriere?
Cavaliere. Che vuol dir?
Fabrizio.   Che vuol dire, egli non passerà,
Se il nome ed il cognome svelar non mi vorrà.
Cavaliere. No davver?
Fabrizio.   No davvero.
Cavaliere.   Parli di cor?
Fabrizio.   Di core.
Cavaliere. Evvi d’andare in collera un’occasion migliore?
Ma non vuò che un mio servo l’ira mi desti in petto,
E licenziarti in pace saprò, te lo prometto.
Per evitare in tanto ogni bilioso eccesso,
Il forastier che aspetta, introdurrollo io stesso.
Venga, signor. (accostandosi alla porta)
Fabrizio.   Perdoni.
Cavaliere.   Basta così, per ora.
Fabrizio. (Un padron più pacifico non ho veduto ancora).
(da sè, e parte)

SCENA III.

Il Cavaliere, poi il Signor Giacinto.

Cavaliere. Perch’io mai non mi sdegno, prende costui baldanza,

Ma saprò colle buone fargli cambiare usanza.
E se poi persistesse a far meco il dottore,
Costami poca pena cambiare un servidore.
Giacinto. Cavalier, vi saluto.
Cavaliere.   Vostro buon servitore.
Giacinto. Voi non mi conoscete.
Cavaliere.   Non ho ancor quest’onore.
Giacinto. Io son Giacinto Ottangoli, nobile milanese.
Cavaliere. Della famiglia vostra molto parlar s’intese.