Cavaliere. E per questo, che importa?
Fabrizio. Cospetto! in casa mia
Non soffrirei un uomo di simile genia.
Un che mi fa l’amico, e poi, che sottomano
Viene a far il grazioso? lo caccerei lontano.
Cavaliere. Anzi ho piacer ch’ei resti, ed abbia il campo aperto
Qualunque suo pensiere di rendere scoperto.
Può darsi che la dama per lui conservi stima;
Se ciò è ver, non mi preme, ma vuò saperlo in prima.
Certo, ch’ei non doveva coprire i fini sui;
Ma se l’azione è indegna, peggio sarà per lui.
Fabrizio. E soffrir lo potete senz’ira e senza sdegno?
Cavaliere. Non perdo la mia pace per un sì lieve impegno.
Di quanto male al mondo l’uomo recarci aspira,
Maggior è il mal che interno noi ci facciam coll’ira.
Può rapirci alcun bene forse l’altrui livore,
Ma ogni perdita è lieve, se ci risparmia il cuore.
E chi dall’ira ardente sentesi il cuore oppresso,
Trova ovunque il motivo di macerar se stesso.
So distinguer gli oltraggi, detesto il vil costume,
So che rispetto esige dell’amicizia il nume;
Ma senza ch’io rilasci alle querele il freno,
Lascio che il reo puniscano i suoi rimorsi in seno.
Fabrizio. Io che non son filosofo, siccome è il mio padrone,
Quando qualcun mi oltraggia, adopero il bastone.
Mi faccia questa grazia, caro il mio padroncino,
Mi lasci, come merita, trattar don Paolino.
Cavaliere. Quel che per me non si usa, nei servi miei detesto.
Fabrizio. Se indifferente è in tutto, può esserlo anche in questo.
Cavaliere. Indifferente io sono al mal siccome al bene.
Ma non già nel discernere quel che all’onor conviene.
In casa mia non voglio che un ospite si oltraggi;
Non servaci di scusa l’esempio dei malvaggi.
Alle incombenze vostre sollecito badate;
Lasciate a me il pensiere di regolarmi: andate.