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180 ATTO QUINTO
Dorotea. Orsù, non vuò impazzire per cosa che non preme;

Eccomi qui venuta con lor signori insieme.
Ma mi stupisco bene, che stiano in questo loco
Cogli usci spalancati, e senza un po’ di foco.
Fabrizio. Sembrami di aver caldo, e pur sono avanzato.
Gaudenzio. Credetemi, signora, ch’io son mezzo sudato.
Dorotea. Voi che patite il freddo, vi par che abbian ragione?
(a Ferrante)
Ferrante. Volpino.
Volpino.   Mi comandi.
Ferrante.   Apri quel finestrone.
Volpino. Subito. (va ad aprire la finestra)
Ferrante.   (Mi contento anch’io d’intirizzire). (da sè)
Dorotea. Che dite? (al Conte)
Conte.   A quel ch’è vero, non si può contradire.
Dorotea. Signor, per quel ch’io vedo, di me prendete gioco;
Dell’amicizia vostra posso fidarmi poco.
Conte. Questo che voi mi fate, è un torto manifesto.
In faccia a tutto il mondo lo dico e lo protesto:
Vi venero, vi apprezzo, e l’occasione aspetto
Di far valer per voi la stima ed il rispetto.
Signori, perdonatemi, parlo con quanti siete.
La sua virtù, il suo merito, ancor non conoscete;
Ed io che ho qualche pratica del cuor delle persone,
Pretendo in faccia vostra di renderle ragione.
Dorotea. Il Conte non è stolido; egli può dir chi sono,
Può dir con fondamento qual penso e qual ragiono.
Mia cognata medesima può dir se nel mio petto
Per lei, per la famiglia, nutrisco un vero affetto.
Cammilla. Servirvi io non intendo di falso testimonio.
Dorotea. Conte, a voi è palese dell’amor mio la prova.
Conte. L’opera mal diretta a meritar non giova.
Dorotea. Conte, in faccia del mondo così mi difendete?
Conte. Difendervi prometto, quando ragione avrete.
Dorotea. Dunque ho torto finora.