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160 ATTO TERZO
Ferrante. Ma perchè non volete quel povero infelice?

(accennando Rinaldo)
Dorotea. Ecco, tosto ch’io parlo, ciascun mi contradice.
Che dite voi del suocero? non può veder la nuora.
(al Conte)
Ferrante. No, Dorotea carissima, il suocero vi adora.
(va a sedere a lei vicino)
Eccomi a voi vicino; basta che voi parliate.
Tutto a eseguir son pronto; di ciò non dubitate.
Dorotea. Conte, gli posso credere?
Conte.   Voi avete una mente,
Che da sè può discemere assai felicemente.
Dorotea. Eccovi del salame. (a Ferrante)
Ferrante.   Non fo per rifiutarlo.
Ma non ho denti in bocca bastanti a masticarlo.
Bisogno ho di scaldarmi con un po’ di minestra.
Dorotea. Foligno.
Foligno.   Mia signora.
Dorotea.   Apri quella finestra.
Ferrante. No, per amor del cielo.
Dorotea.   Eccolo a contrariarmi.
In sì picciola cosa nemmen vuol soddisfarmi?
Conte. Caro signor Ferrante, voi avete un gran torto.
Ferrante. Mi dia un colpo alla prima, se mi vuol veder morto.
È ver, lo torno a dire; ho settant’anni addosso,
Ma vuò partir dal mondo quanto più tardi io posso.
(parte)
Dorotea. La vecchiaia è la madre della malinconia;
Che ne dite, cognata?
Cammilla.   Dico, signora mia.
Che l’aria dell’inverno sul collo non mi piace.
Se il freddo vi diletta, godetevelo in pace. (parte)
Dorotea. Conte, che bella grazia!
Conte.   Per dir la verità,
Quest’è ver la cognata mancar di civiltà.