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496 | ATTO TERZO |
che mi vuol tenere vilmente oppresso; fuggasi da chi mi sprezza... Ah no, non è possibile ch’io m’allontani. (mostra di voler partire, si allontana, e poi si ferma, abbandonandosi sopra una sedia in qualche distanza.)
Placida. (Non sa partire l’ingrato). (da sè, guardando sott’occhio)
Fausto. (Parmi che il di lei cuor ci patisca). (da sè, guardandola)
Placida. Deh Amore, non me lo togliere intieramente. (da sè, con passione)
Fausto. (Voglia il cielo, che s’intenerisca). (da sè)
Placida. Sì lento si va incontro a un dolce amore che invita? (a don Fausto)
Fausto. Eccomi ad incontrare i dolci inviti d’amore. (s’alza impetuosamente, e corre da donna Placida)
Placida. Amore non è più meco; è in seno della germana. (sdegnosa)
Fausto. Quanto è pronta a ingannare una lusinghiera speranza! (si scosta)
Placida. Via, perchè non correte a porgere a mia germana la destra?
Fausto. Siete voi, donna Placida, che m’insegnate l’infedeltà?
Placida. Sì, sono io che v’insegna a superar i rimorsi, e a secondare i stimoli del vostro cuore.
Fausto. L’insegnamento è dubbioso; dovreste, perchè io l’eseguissi, comandarmelo assolutamente.
Placida. Andate, io vel comando.
Fausto. Deggio obbedire le vostre leggi. (s’allontana a poco a poco)
Placida. (Ah, il traditore mi lascia). (da sè)
Fausto. Vorrebbe il piede obbedirvi, ma il cuore non lo consente. (volgendosi a lei, e ponendosi smaniosamente a sedere)
Placida. (Ah no, egli mi ama davvero), (da sè, guardandolo un poco)
Fausto. (Parmi che si vada rasserenando). (da sè, guardandola)
Placida. (Povera me! La mia libertade è in pericolo). (da sè)
Fausto. Chi mai l’avrebbe creduto, che donna Placida altrui mi cedesse? (in maniera di farsi sentire)
Placida. Come! v’ho io ceduto? (alzandosi verso di lui)