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492 ATTO TERZO


Isidoro. Eh, lasciate operare a me. Gli dico due parole, e ve lo mando qui subito. (Tra don Fausto e don Sigismondo, non vi è paragone. Don Fausto è più generoso, fa buona tavola, posso sperare da lui quel che non posso sperare da quell’altro), (parte)

SCENA li.

Donna Placida e donna Luigia.

Placida. (Questa ci mancherebbe!) (da sè)

Luigia. Sorella, a quel che io vedo, parmi che vi dispiaccia, che parlisi per me a don Fausto. Dubito che voi l’amiate. Se così è, ve lo cedo.

Placida. Davvero? vi sono obbligata infinitamente. Me lo cedete? Io non credevo che fosse cosa vostra don Fausto.

Luigia. Don Fausto cosa mia? Voi vi burlate di me.

Placida. Ei non è cosa vostra, e vi esibite di cederlo?

Luigia. Veramente lo dissi senza pensarvi; lo so che dissi male; ma voi mi potete ben compatire.

SCENA III.

Paoluccio e dette.

Paoluccio. Signore, sono di là aspettate.

Placida. È lo zio, che mi cerca?

Paoluccio. Per dire la verità, il padrone mi ha detto di chiamar donna Placida, e il signor don Fausto mi ha incaricato di far venire donna Luigia.

Placida. Andateci voi, germana; non è necessario che io ci venga. Può essere che senza di me facciate meglio il vostro interesse. Dite che siete libera, che volete scegliere voi lo sposo. Sono tre i concorrenti, sceglietevi qual più vi aggrada.

Luigia. Sono tre? Don Isidoro io non lo considero in questo numero.

Placida. Eh, sono tre senza don Isidoro; in luogo suo metteteci l’avvocato.