Fausto. Signora, io mi rammento la legge ed il comando.
Quel che voi comandaste, per grazia io vi domando.
Meno gentil deh siate, meno cortese meco,
Se il cor ne’ suoi trasporti dev’essere men cieco.
Placida. Come! vi scordereste quel ch’io ricuso e temo?
Fausto. Bramo di compiacervi, ma di me stesso io tremo.
Lungi da voi, virtude parmi d’aver sì forte,
Da non temer di perdere la gloria in queste porte.
Ma nell’udirvi appena a ragionar sì umile,
Ah che il valor vien meno, ah che ritorno un vile.
Dove s’intese mai nel militar conflitto,
Che sia contro al nemico resistere un delitto?
Pur nella pugna vostra, se bramo aver vittoria,
Deggio fuggirvi, e perdere di vincervi la gloria.
Perdo, se vi conquisto, del mio trionfo il merto,
E se vi cedo il campo, il mio morire è certo.
Placida. Guerra d’amor dissimile è al guerreggiar di Marte;
Altre le leggi sono, altro il costume e l’arte.
Là tra le fiamme e il ferro, gloria il valor concede,
Qua un generoso amante trionfa allor che cede.
Nell’insultare il vinto gode il guerriero audace.
Un amator discreto cela le palme, e tace.
Fausto. Sì, celar la vittoria son dal dovere accinto;
Basta che voi diciate che ho trionfato e vinto.
Placida. Nol dissi, e non sperate che segno alcun vel mostri.
Fausto. Se il labbro a me lo tace, parlano gli occhi vostri.
Placida. Se gli occhi a mio malgrado vagliono a lusingarvi,
Fuggirò in avvenire anco di rimirarvi.
Troppo in mio cor prevale l’amor di libertate,
Temo le insidie vostre; non vi lusingo; andate.
Fausto. Vi ubbidirò. All’amore prevalga il mio rispetto.
Ah, che son io vincendo a perdere costretto.
(in atto di allontanarsi)
Placida. Don Fausto. (chiamandolo dolcemente)
Fausto. Mia sovrana. (rispondendo dolcemente)