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LA VEDOVA SPIRITOSA 395
Isidoro. E più di un quarto d’ora che il mezzodì è sonato.

Berto. Per me prenda il suo comodo. (Ehi, giudizio, è un soldato).
(piano a don Isidoro)
Placida. È un onor ch’io non merito, che sia per onorarmi
Venuto un cavaliere sì presto a visitarmi.
Spiacemi l’ora incomoda.
Isidoro.   Possono restar qua.
Noi pranzeremo intanto.
Berto.   Con tutta libertà.
Ferramondo. Certo che donna Placida esser non può avvezzata
Pranzare a un’ora insolita cotanto anticipata.
S’ella ritrova incomodo il desinar sì presto,
Con vostra permissione, seco alcun poco io resto.
Berto. Sì, signor capitano, resti quanto gli pare.
(Con gente granatiera non vo’ precipitare), (da sè)
Placida. Signor, voi conoscete da ciò nel cuor del zio
Per voi tanto rispetto, quanto ne vanta il mio.
Il pranzo ai convitati più differir non puote,
E sol per compiacervi restar fa la nipote.
Io pur nel primo giorno che son nei tetti sui,
Dovrò, se il comandate, pranzar senza di lui;
Ma un cavaliere avvezzo trattar con compiacenza,
Spero che mi dispensi da tale inconvenienza.
Tornar siete padrone, il zio non lo contrasta,
Il zio con tutto il mondo dolcissimo di pasta.
Ma in questi pochi giorni ch’esser dobbiamo insieme,
Grata mostrarmi ad esso col mio dover mi preme.
Pregovi per finezza in libertà lasciarmi,
E prima della sera tornare ad onorarmi.
Ferramondo. Sarei un indiscreto, sarei un incivile,
Qualor non mi appagassi di un animo gentile.
Accetto le finezze, onde onorato io sono.
Tornerò innanzi sera. Domandovi perdono. (parte)