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222 | ATTO TERZO |
Luca. Ah mirami,
Caterina, idol mio; non esser timida
Soverchiamente con chi t’ama. Un termine
Diasi al rispetto, e là dove finiscono
Gli affetti di pupilla, abbian principio
Quelli di sposa. Io non di padre i soliti
Severi uffici ad usar teco apprestomi,
Ma di marito i geniali e teneri
Amplessi e i dolci modi. Deh, a me volgansi
Le tue luci serene... ahimè! le lacrime
Ti distillan dagli occhi? O verecondia,
Tesoro di donzella inestimabile,
Scostati ormai all’apparir del fulgido
Santo foco d’amor, che a Imene è socio.
O bella faccia di colei che accendemi,
Lascia la terra di mirar, sollevati
Ver quella parte ove dibatte ed agita
L’ali Cupido consigliero e pronubo.
Quel che ti parla, non è già un estranio
Sconosciuto amatore, ond’esser pavida
Facciati il dubbio di un amor fantastico.
Chi ti amò come padre, molto meglio
Ti sarà sposo. Ma! tu taci? e in copia
Mandi le stille che il bel seno irrigano?
Vieni, fa cuor; la bella man deh porgimi,
Lascia ch’io imprima per amore un bacio
Sulla candida destra...
Caterina. (Oh cielo, aiutami).
SCENA VIII.
Messer Luca solo.
Senza un conforto? che mai fermi credere
Quei duo ribaldi, che piegata fossesi