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LA PUPILLA 217
Dell’imeneo, che da se stessa affrettami

Dispor le cose della gioia al termine.
Panfilo. Eh, padrone, natura è madre provvida;
Delle fanciulle il cor scalda in un attimo,
Tanto più se la brama in lor solletichi
Labbro che scaltro con ragion s’insinui.
Luca. Placida, lo confesso, il dono è massimo
Che mi facesti, e soddisfare al debito
Teco dovrei; ma non più bisognevole
Sei di mercede, poichè Orazio sposati
E ti fa ricca. Ora del par ti rendono
A me tue nozze, e compensare intendomi
L’opra dell’amor tuo con amicizia.
Placida. Piacemi la ragion sana, economica.
Panfilo. Quel che con lei la vostra man risparmia,
Potete unir del servidore al merito.
Luca. Sì, figliuol mio, lascia che il laccio stringami
Alla fanciulla, e ti prometto accrescere
Una lira ogni mese al tuo salario.
Panfilo. Allora sì che potrò far baldoria,
E maritarmi, e dei figliuoi far nascere.
Luca. Vuò a cacciar fuori, per le nozze prossime
Di Caterina, quante gioje ed abiti
Lasciò mia madre. Se Orazio contentasi,
Nel dì medesmo di sposarla io medito
Ch’ei ti porge la mano, e che suppliscasi
Per metade alle spese indispensabili
Del desco molle, e ogni altra ceremonia.
Tosto per conto mio vuò che si ammazzino
Quattro grosse galline, e che si sbocchino
Due fiaschi, e che si godano e si bevano
Alla salute degli sposi. Ah giuravi,
Non provai nel mio sen mai sì gran giubilo.