Una conversazione saggia, onesta, sincera,
In cui nell’eguaglianza trova il suo dritto ognuno,
Tutti comandar possono, e non comanda alcuno.
Torto alfin non si reca a alcun dei pretendenti,
Se tutti son padroni, e tutti1 dipendenti.
Uno all’altro non rende invidia o gelosia,
Se ognun può dire, io regno, niun può dire, è mia.
Prevedo un altro obbietto, poi l’orazion finisco.
So che volete dirmi, vi vedo e vi capisco.
Sento che tontonate: se mi venisse offerto
Il regno in altro loco dispotico e più certo,
Ho da lasciar di reggere una provincia solo,
Per obbedir cogli altri e comandar di volo?
No, cari miei, sentite quanto discreta io sono.
La monarchia accettate, vi assolvo e vi perdono.
Mi spiegherò: di nozze chi vuol nutrir la brama,
Non deve alla consorte prescegliere la dama;
Chiedo sol che, fintanto che liberi vivete,
Restiate nel governo in compagnia qual siete.
Ecco i disegni miei, eccovi il cuor svelato,
Per me vo’ viver certo nel libero mio stato.
Al cuor di chi mi ascolta, non prego e non comando.
Chi si contenta, approvi; chi non approva, al bando.
Isidoro. Dopo il lungo silenzio rider si può, signora?
Berenice. Sospendete le risa, che non è tempo ancora.
Agapito. Io sarò dunque il primo, signori, ad aprir bocca.
Contento della parte son io, che qui mi tocca.
In questa unione nostra, in questo nostro stato,
Del pranzo e della cena mi eleggo il magistrato.
Berenice. Però discretamente.
Agapito. Sì, più dell’ordinario.
Pippo. Anch’io son contentissimo. Sarò il bibliotecario.
Berenice. A leggere imparate, e lo sarete poi.
Pippo. Mi lascierò correggere e regolar da voi.
- ↑ Ed. Zatta: son tutti.