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146 ATTO TERZO
Quel che non chiede nulla, si ferma con bontà;

Quel che pretende tutto, m’insulta e se ne va.
Se fosse il nostro caso in un teatro pieno,
Dirian: quel che più vuole, è quel che merta meno.
Claudio. (Dello stil che ho fissato, ancora io non mi pento).
Filiberto. (La flemma di don Claudio mi fa dello spavento).
Berenice. (Se amici mi riuscisse farli ancor ritornare!)
Claudio. (Se ne anderà il furioso).
Filiberto.   (Non la vuò abbandonare).
Berenice. Questo è quel che si acquista per usar distinzione.
Filiberto. Per or non vi rispondo.
Claudio.   Ma la dama ha ragione.
Filiberto. Sì, ha ragione. (affettando placarsi)
Berenice.   Lo dite davvero, o per ischerno?
Via, placatevi un poco.
Filiberto.   Ma che tormento eterno!
Berenice. Sapete voi, signori, ch’è l’onor mio in pericolo,
E che per cagion vostra sarò posta in ridicolo?
Ecco la gran mercede che alfine ho conseguita,
I miei due cavalieri m’hanno ben favorita.
Domani per Milano a dir si sentirà:
Ehi, donna Berenice più un cavalier non ha.
Eccoli disgustati, eccoli in un impegno;
E per chi? son io forse la causa dello sdegno?
Don Lucio è conosciuto, si sa ch’è uno stordito.
Vedeste in faccia vostra, se franca io l’ho smentito.
La gelosia che nasce fra voi per mio tormento,
Si appoggia, si sostiene su qualche fondamento?
E se parlar potessi libera ad uno ad uno,
Puot’esser ch’io facessi vergognar qualcheduno.
Se ora di più non dico, se mi trattengo un poco,
È perchè non vuò accrescere legna novelle al foco.
Via, se animati siete da spiriti onorati,
Lasciate ch’io vi possa veder pacificati.
Vedrete a sangue freddo, se il ver considerate,