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56 ATTO SECONDO


un debito, sa di dover restituire cosa che ha realmente ottenuta; e quest’impegni di servitù sono, come suol dirsi, castelli in aria.

Lavinia. Orsù, vedo che il vostro ragionamento (alzandosi) si avanzerebbe un po’ troppo. Lasciatemi continuare nell’abbaglio de’ miei pregiudizi, giacchè non avete l’abilità di disingannarmi. Restate voi nella quiete delle novelle massime, che avete sì facilmente adottate. L’unica grazia che ardisco chiedervi, è questa: parlatemi di tutto altro, che di servitù e di costanza. (parte)

SCENA VII.

Donna Florida, don Mauro, don Paoluccio.

Paoluccio. Eccola montata in isdegno. La conversazione è finita. Qui non si può sperare di trattar lungamente un articolo di galanteria. A Parigi in una questione simile sarebbesi trovata materia di discorrere una veglia intera.

Florida. Donna Lavinia è dominata dalla passione. Le spiace che don Paoluccio, dopo due anni d’assenza, torni colle massime di uno spirito forte. Un po’ più debole lo vorrebbe sul proposito di cui si tratta.

Paoluccio. Io non ho detto per questo di aver cambiato nell’animo il proposito di servirla; ma vorrei ch’ella mi accordasse il merito della gratitudine, senza l’obbligo della costanza.

Mauro. Amico, la distinzione vostra, la vostra bizzarra idea, ha un poco troppo del metafisico. Le donne fra di noi non sono a tal segno speculative, e se lo sono, non crediate ch’esser lo vogliano in nostro solo vantaggio. Il disimpegno vostro dalla costanza è una proposizione che salta gli occhi. Voi le comparite in aria d’un uomo franco, e la franchezza vostra ha tutto l’aspetto della indifferenza, la quale rammentando gli impegni vostri, non può che dirsi incostanza.

Paoluccio. S’ella pensa così di me, non so che giudicare di lei. Posso credere che non le dispiaccia trovarmi disposto a lasciarla nella sua libertà, e posso eziandio giudicare che i vostri ra-