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52 | ATTO SECONDO |
Riminaldo. Da un contadino...
Eustachio. Ci sono state...
Riminaldo. Vendute.
Gasparo. Eh, ora che mi ricordo; io le ho donate alla Menichina e alla Libera. Ed esse le avrebbono forse donate a voi, eh?
Riminaldo. Non le potrebbono aver vendute?
Eustachio. Caro don Gasparo, accettatele da noi; graditele, e non curate di più. (Chi mai se lo poteva sognare?) (da sè, e parte)
Riminaldo. Il dono è sempre dono. I doni girano; e non c’è un male al mondo per questo. (Quest’accidente mi fa un poco ridere, e un poco arrossire). (da sè, e parte)
Gasparo. Ho capito. Egli è poi vero, che questi signori ospiti villeggianti non si contentano di mangiare e di bere in casa mia, e di giocare; ma vogliono anche il divertimento delle villanelle, e colle mie s’attaccano1; e io fo loro il mezzano. Ed io regalo le donne, e le donne regalano loro. Bella, bella da galantuomo. Causa mia moglie; causa ella di tutto. Se non fosse per lei, verrei qui solo, da me, e tutto il buono sarebbe il mio. Hanno avuto il selvatico, e dopo il selvatico si prenderanno il domestico. Basta, basta, non ne vo’ più. Un altro anno, io a ponente, e la signora a levante. Già a che serve che stiamo insieme? Ella viene nel letto quando io mi alzo. Povero matrimonio! (si soffia sulla mano, e parte)
SCENA VI.
Donna Lavinia, donna Florida, don Mauro e don Paoluccio.
Paoluccio. Compatitemi, se mi scaldo in un proposito che mi tocca sul vivo. Il signor don Mauro ed io siamo di contraria opinione intorno ad alcune massime della vita civile. Donna Lavinia si è dichiarata del suo partito; ed io non son contento, se non vi vedo convinti.
- ↑ Mancano queste ultime parole nell’ed. Zatta.