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è un’ombra senza vita, o un manichino. — Quattro anni prima, nel dicembre del 1752, si recitava per una sera sola sul Teatro Francese di Parigi Narcisse, ou l’amant de lui-même, commediola in un atto di Gian Giacomo Rousseau, che l’autore affermò di aver sbozzato a 18 anni, vale a dire ai tempi di Marivaux. Ma di un ragazzo, se anche cresciuto dovrà scrivere il Contratto sociale, non ci lagniamo, se ci dà appena uno scherzo senz’anima.

Goldoni invece, nota il Rabany, «est passe là, sans s’en douter, à coté d’un véritable sujet de comédie, mais de comédie amère et profonde, que son aimable génie, trop superficiel, n’a pas eu la force de traiter» (C. G., Paris, 1896, p. 364). Anche Cesare Levi osservò che il commediografo veneziano «non seppe scolpire profondamente i caratteri» dell’egoista, dell’avaro, del prodigo, dell’impostore (Letteratura drammatica, Milano, 1900, p. 1 64). Tuttavia, se il caldo e le feste di Colorno impedirono al Goldoni di scrivere un capolavoro, e se il buon Dottore si abbandonò, come tante volte per vincere le aspre difficoltà della sua esistenza, a certa furia facilona che basta a creare sul teatro gli effimeri trionfi, non sarà mai abbastanza ripetuto che egli penetrò, quando volle, nell’anima di don Marzio e di Mirandolina, di sior Lunardo e di Titta Nane, e di cento personaggi. Al carattere dell’egoista par quasi ripugnasse il suo ingegno. Avverte il Molmenti ch’egli «studiò e ritrasse gli svariati aspetti dell’egoismo» nell’Amante di s. m., nelle Donne gelose, nell’Avaro, nel Vero amico, nel Ritorno dalla villeggiatura, nell’Apatista (C. G., Venezia, 1880, pp. 107-8), ma non direi già «finamente».

Nemmeno gli altri personaggi meritano di fermare la nostra attenzione. Il signor Alberto è il solito veneziano così familiare nel teatro del Chiari, ma certo vive di più il signor Tomio nel Torquato Tasso. Don Mauro è personaggio più da farsa che da commedia, né ha di patologico che il troppo amore al vino (Albertazzi, Patologia goldoniana, in Flegrea I, 1899, p. 139). Anche la commissaria Graziosa può appena strappare qualche risata al volgo; e le fa troppo onore chi oggi la ricorda (R. Schmidbauer, Das Komische bei G., Monaco, 1906, pp. 95-6). La marchesa Ippolita abbiamo conosciuto molto più perfida e superba in altre commedie goldoniane. Solo quelle lacrime continue e quei fazzoletto di donna Bianca ci attirano e ci commuovono un po’, perchè una fanciulla che piange veramente d’amore è cosa rara nel teatro del Settecento.

Dopo ciò sembrerà strano che il Montucci facesse posto nella sua Scelta (Lipsia, 1828) all’Amante di se med. E più ancora che certo P. T. Baib (Parmenio Bettoli) offrisse un bel giorno al pubblico italiano, come roba goldoniana inedita, un suo Egoista per progetto (P. Bettoli, Storia della comm. l’Egoista p. p. e di P. T. Barti, Milano, Treves, 1875 e L. Bellotti-Bon, Lamentevole storia narrata da L. B. B. delle tribolazioni, confessioni e riflessioni serio-facete di un comicuzzo ignorante a proposito dell’Egoista p. p., commedia attribuita a C. G. Torino, 1875: v. anche F. Galanti, C. G., Padova, 1882, p. 239); De Gubernatis, Dictionnaire International des écrivains du jour, vol. I, alla voce Barti, Firenze, 1889 e i giornali del tempo). Fra i detriti del teatro di Carlo Goldoni, colossale creazione, è meglio resti sepolto il Conte dell’Isola, al quale il buon Pietro Schedoni potrà così risparmiarsi di augurare nuove sciagure, (Principi morali del teatro ecc. Modena, 1828, p. 69), per rendere un po’ più esemplare la fine dell’infelice commedia.