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506 ATTO QUINTO
Conte. Vi sarà stato in prima fra lor qualche contratto.

Alberto. Cussì digo anca mi, qua no ghe xe risposta.
Conte. E il marchese Fernando sarà venuto apposta,
Col pretesto del feudo e dei ministri suoi.
Ecco, signor Alberto, quel che san far gli eroi.
Egli pur per amore, oppur per interesse,
Mostrò le istesse brame, le debolezze istesse.
Ora più non mi dica, che sconsigliato io fui,
Ch’alfin son di qualch’anno più giovane di lui.
Ancor mi stan sul core quei rimproveri amari;
Seco farò lo stesso; voglio che siam del pari.
Alberto. Ma quel boccon de dota intanto el porta via.
Conte. Eh, la marchesa Ippolita, se volevo, era mia.
Al mondo barba d’uomo non ci sarebbe stato
Che me l’avesse tolta, s’io ci avessi aspirato,
Nè il marchese Fernando, nè cento altri suoi pari;
Ma io? eh, che non vado in traccia di denari.
Non me n’importa, no, non me n’importa un fico;
Son della pace mia, son del mio genio amico.
Ma vo’ al signor Marchese la nuova sia recata,
Ch’ei sposa la Marchesa, perch’io non l’ho curata.
Alberto. Che bisogno ghe xe de far pettegolezzi?
Conte. So che questi signori sono a sprezzare avvezzi;
Credono di esser soli in merto, in grandezza,
E sian lor tributari l’amore e la bellezza.
Però franco vi parlo; se avessi a esser marito,
Val più della Marchesa donna Bianca in un dito.
Alberto. Fin qua gh’avè rason: ricchezza, nobiltà,
Spirito... cosse belle. Ma stimo la bontà.
Dove voleu trovar, caro el mio caro amigo,
Una putta più bona? Sentì quel che ve digo,
E d’un che ve vol ben, da amigo e servitor,
Pesè ben ste parole, e lighevele al cuor.
Vu sè un che se stesso conosse, e se carezza.
Lasse che ve lo diga, ve amè con tenerezza;