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482 | ATTO TERZO |
E poi son donna alfine, di voi più compatibile.
Se tanto non vi amassi, sarei men tormentosa.
Amor mi fa stucchevole, amor mi fa sdegnosa.
Veder sugli occhi miei... ma via, non vo’ annoiarvi?
Che non farei, meschina, affin di soddisfarvi?
Voi siete il primier uomo, onde ad amare ho appreso:
Voi mi avete nell’anima il primo foco acceso.
E se da voi pretende la ricompensa il cuore,
Sdegno non è che il chiede; ve lo domanda amore.
(piange)
Ah signor, perdonate, se il lagrimar vi spiace.
Conte. No, cara, un pianto tenero è un lagrimar che piace.
(restano un poco ammutoliti)
SCENA VII.
La Marchesa Ippolita e detti.
La carità m’insegna, che li risvegli un poco.
(da sè, in distanza)
Conte. (Non so che dir; non trovo ragion per iscusarmi).
Marchesa. Vi son serva, signori; è permesso avanzarmi?
Bianca. Il luogo è tanto pubblico, che può venir chi vuole.
Marchesa. Ma perchè, quando io vengo, sospender le parole?
Avete soggezione di me? Mi fate torto.
Vi farò da piloto per affrettarvi al porto.
Che non farei, amica, per non vedervi in duolo?
E per il signor Conte, ch’è tanto buon figliuolo?
Conte. Eh! la marchesa Ippolita sempre è bizzarra almeno.
Bianca. Già non si può nascondere, quel che si chiude in seno.
Ognun sa che ci amiamo; e la Marchesa anch’essa
Tinta non sarà meno da questa pece istessa.
Marchesa. Come? credete voi, che ami il Contino anch’io?
Bianca. Oh, non è ciò che intendo di dir col labbro mio.