Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
410 | ATTO SOLO |
SCENA VIII.
Il Conte, poi don Ambrogio.
Conte. Queste picciole grazie, che son dall’uso concesse ai rispettosi serventi, non servono a chi si lusinga di divenire lo sposo. Impari ella per tempo il modo mio di pensare, e uniformandosi al mio sistema... Ecco qui don Ambrogio. Il Cavaliere non dovrebbe averlo veduto, e se la sorte mi fa essere il primo, posso maggiormente sperare.
Ambrogio. Oh signor Conte, aspettate me forse?
Conte. Per l’appunto, signore.
Ambrogio. Che cosa avete da comandarmi?
Conte. L’affare che a voi mi guida è di tale importanza, che mi sollecita estremamente.
Ambrogio. Se mai, a sorte (nol dico per offendervi), se mai voleste domandarmi danaro in prestito, vi prevengo che non ne ho.
Conte. Grazie al cielo, non sono in grado d’incomodare gli amici per così bassa cagione.
Ambrogio. Vi torno a dir: compatitemi. Al giorno d’oggi le spese che si fanno, riducono i più facoltosi in istato d’aver bisogno, e non è più vergogna il domandare. Io non ne ho, ma se si trattasse di far piacere ad un galantuomo, ho qualche amico da cui con un’onesta ricognizione potrei compromettermi di qualche centinaio di scudi.
Conte. Ma io non ne ho di bisogno.
Ambrogio. Mi consolo, che non ne abbiate bisogno; se mai o per voi, o per altri, venisse il caso, sapete dove avete a ricorrere. Io non ho un soldo, ma si ritroverà all’occorrenza.
Conte. Signore, voi avete una nuora.
Ambrogio. Così non l’avessi.
Conte. Perchè dite questo?
Ambrogio. Vi par poca spesa per un poveruomo una donna in casa?
Conte. Quanto più vi riesce di aggravio, tanto meglio penserete a rimaritarla.