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L'AVARO 409


sione il dovere che ad un suocero mi assoggetta, e se l’uno o l’altro di voi mi verrà proposto, sarò egualmente contenta.

Conte. Ah donna Eugenia, ciò non basta per consolarmi.

Cavaliere. Ed io ne son contentissimo, e in questo punto da voi mi parto per avanzar le mie suppliche a don Ambrogio; e ve lo dico in faccia del Conte, perch’ei lo sappia, e sia sicuro da tutto questo, che saprò correre la mia lancia, senza che mi spaventi il merito di un tal rivale. Signora, all’onore di riverirvi. (le bacia la mano, e parte)

SCENA VII.

Donna Eugenia e il Conte.

Conte. (S’ella divien mia sposa, tu non le bacierai più la mano). (da sè)

Eugenia. Conte, sarete voi meno sollecito del Cavaliere?

Conte. Vada pur egli altrove a rintracciar don Ambrogio; io l’attenderò qui, se mel concedete.

Eugenia. Siete padron di restare. Ma dovete permettere, che per un mio picciolo affare passi nella mia camera.

Conte. Lo vedo; voi state meco mal volentieri.

Eugenia. No, v’ingannate. Ritornerò fra poco. Addio, Conte. (in atto di partire)

Conte. Son vostro servo.

Eugenia. (Non curasi di baciarmi la mano!) (da sè, fermandosi)

Conte. Avete qualche cosa da dirmi?

Eugenia. Avete voi qualche cosa da domandarmi?

Conte. Non altro, se non che abbiate compassione di me.

Eugenia. Povero Conte! tenete. (gli offre la mano)

Conte. No, donna Eugenia, non è questo quel ch’io desidero. La mano che ora mi offrite, è ancor bagnata dalle labbra del Cavaliere. Son delicato in questo.

Eugenia. Non mi dispiace la vostra delicatezza. Alcuno la chiamerebbe un difetto, ma i difetti che provengono dall’amore, sono compatibili in un cuor sincero. (parte)