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(Saggio d’uno studio est. e stil. sulle comm. di G. p. 50, 51, 93, 102) «quanto la serena potenza comica di Goldoni si rifletta nel rapido ed efficace nostro dialetto, in cui era maestro», com’altri forse non fu nè sarà mai.

Ben naturale quindi, che il Campiello «assai bella produzione» venisse giudicata dal Gavi (Della vita di C. G. p 163); tra le più garbate e veneziane dal Paravia (Discorso Venezia 1831 p. 15, 16); delle più briose dal nostro Galanti (C. G. e Ven. nel sec. XVIII, p. 239); «une de ses bonnes pièces populaires» dal Rabany (C. G. Le Thèatre ecc. p. 362-3); e che ultimo di tempo, non certo di autorità, così ne ragionasse Domenico Oliva dopo l’accoglienza di plauso, cordiale e convinta, riportata dalla commedia al Quirino di Roma nel novembre 1907, interpreti squisiti Ferruccio Benini ed i suoi comici: «Il Campiello è una di quelle commedie del Goldoni che non solamente superano il suo tempo, ma superano anche il nostro. Il Campiello è tuttora una commedia avveniristica: non ha intreccio, non ha favola, non è che un succedersi di scene e di pitture, non è che un quadro della vita; ma in quel quadro come spazia l’occhio e come si respira! È necessaria l’arte del maestro, è necessaria l’umanità del maestro perchè il pubblico accetti e goda un’opera così nuova e così rivoluzionaria, in contrasto flagrante con tutte le regole, le abitudini, le convenzioni, le quali reggono il teatro. Se il teatro era giunto verso la metà del secolo decimottavo a essere il limpido specchio della realtà in cui viviamo, conviene concludere che, morto il Goldoni, cominciò un periodo di decadenza, che perdura. I successori del Goldoni non intesero l’immenso progresso che merce sua aveva fatto l’arte drammatica; nè oggi ancora s’intende, brancolando gli scrittori contemporanei nel falso, nel vuoto, obbliando le armonie e i ritmi del vero, bandendo dalla scena i vivi, popolandola invece di fantocci e di larve». (Giorn. d’Italia Roma 24 nov. 1907).

Ah se questo aggiustatissimo elogio avesse potuto leggere il signor conte Carlo Gozzi, che nel Campiello al pari che ne Le Baruffe chiozzotte, ne Le Massere, nei Pettegolezzi delle donne non sapeva vedere che trivialità (Gozzi - Opere Venezia Zanardi I, 80 e XIV, 85 e 121; e Memorie inut. Venezia Palese I, 279), quasicchè mettere in scena il popolo minuto fosse trivialità; e non appartenessero all’arte le arguzie, le risorse istintive e il brio nativo della vita popolare, fedelmente ritratta da uno spirito disposto a comprenderla ed a renderla con tutta la freschezza d’un intuito immediato! E riflettasi per giunta, insieme ad altro valente critico, Giulio Piazza, che il Gozzi medesimo «quando a proposito della sua fiaba Il Re cervo si vide costretto a scusare la trivialità dell’opera propria, non si peritò di scrivere col suo solito gesuitismo che “anche le trivialità quando sono poste con freschezza nel loro lume e quando l’uditorio si avvede che l’autore le ha conosciute e poste coraggiosamente e per proposito per quelle trivialità che sono, vengono applaudite risolutamente„» (Il Piccolo Trieste 4 Gennaio 1908). Per Goldoni soltanto avrebbero dovuto essere fischi!

La commedia invece fino dal suo primo apparire, come scrive Goldoni stesso, «piacque moltissimo» (Mem. II, XXXIII); e non solo a Venezia, ma anche a Milano dove «si è replicata tre volte a richiesta quasi comune» (V. la Premessa); alle quali due città possiamo unire Zara nel 1851 (V. il Dalmata 27 febbr. 1907) e Trieste e Roma e tante altre, dove la presentarono