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LA VILLEGGIATURA 27


Riminaldo. In tre ore che si gioca, quanto credete voi ch’io gli abbia guadagnato?

Lavinia. Non saprei.

Ciccio. Non mi ha mai dato un punto.

Lavinia. Capperi vuol dir molto. Gli averete guadagnato qualche zecchino.

Riminaldo. In tutto e per tutto dodici lire.

Ciccio. Mi ha cavato dodici libre di sangue.

Lavinia. E un giocator della vostra sorte sta lì tre ore per un sì vile guadagno? (a don Riminaldo)

Ciccio. E non mette i dodeci zecchmi che ha guadagnato a don Mauro.

Lavinia. Compatite, signore, ve l’ho detto altre volte. Siete padrone di tutto, ma in casa mia non ho piacere che si facciano di questi giochi. Veniamo in campagna per divertirci, e non v’è cosa che guasti più la conversazione, oltre il giocar d’impegno. Anch’io ho perduto vari zecchini... Basta, non dico altro.

Riminaldo. Io non invito nessuno. Mi vengono ad istigare; ma vi prometto che dal canto mio sarete servita. Al faraone non gioco più.

Ciccio. Oh, questa è bella. Non mi potrò ricattare io?

Lavinia. La perdita non è poi sì grande...

Ciccio. L’ho sempre detto: in questa casa non ci si può venire.

Lavinia. Nessuno vi ci ha invitato, signore.

Ciccio. Si perde i suoi danari, e non si può giocare.

Lavinia. Fatelo in casa vostra, e non in casa degli altri.

Ciccio. Volete venir da me a giocare? (a don Riminaldo)

Riminaldo. Verrò a servine, se me lo permette donna Lavinia.

Lavinia. Per me, accomodatevi pure. Bastami che non si giochi da noi.

Ciccio. Prendiamo le carte. (prende le carte dal tavolino)

Lavinia. V’ho da mantenere a carte anche in casa vostra?

Ciccio. Gran cosa! un mazzo di carte usate! Siete ben avara. Quando avremo giocato, ve lo riporterò.