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272 | ATTO QUINTO |
SCENA VII.
Donna Livia sulla loggia, e detti.
Eccolo ancora incerto, smanioso e delirante.
Ah, si conosce appieno, ch’è nell’amor costante.
Sì, sarò sua; per esso il cuor diè la sentenza,
Ma ha da soffrire ancora un po’ di penitenza). (da sè)
Che fan qui don Properzio e don Medoro uniti?
Perchè non favoriscono? Che restino serviti.
Rinaldo. (La saluta senza parlare.)
Livia. Serva sua, mio signore. (a don Rinaldo)
Properzio. A voi siamo indirzzati. (a Livia)
Medoro. Don Rinaldo, venite?
Rinaldo. Non son degl’invitati.
Livia. Venga chi venir vuole, chi vuol restar si stia.
Properzio. Noi accettiam l’invito.
Medoro. Venghiam, signora mia.
(s’incamminano, ed entrano per la porta)
Rinaldo. (Eh, non ha don Riccardo a torto dubitato). (da sè)
Livia. Che dice ella, signore, da me non è invitato?
Che far di più potea? ancor mi sembra un sogno.
Al foglio che ho vergato, se penso, io mi vergogno.
Questa è ben altra prova, che starsi all’aria bruna
A tollerar pacifico gl’influssi della luna.
Altro maggiore sforzo essere il mio si vede,
Di quel d’un uom pentito della sua diva al piede.
Donna che scrive e prega, s’abbassa ad un tal segno.
Che di vergogna è fonte, che di rossori è degno.
E il cavalier compito per gradimento umano
Pone di un zio furente le altrui finezze in mano?
Rinaldo. Bella, perdon vi chiedo...
Livia. Poco il perdono aggrada.
Chi si trattien da stolido a domandarlo in strada, (entra)