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230 ATTO SECONDO
Volea contro l’ingrata formare un giuramento,

Ma nel momento istesso la pinse al mio pensiero,
Bella più dell’usato il faretrato arciero;
E dir nel cuor m’intesi: perchè non le perdoni?
Morrai, se tu la perdi, morrai, se l’abbandoni.
Riccardo. Basta, qualunque siasi, amico, il vostro affetto.
Soffrir più lungamente non deesi nel mio tetto.
Se amar donna vi piace, che a voi mal corrisponde,
Ite, perdon vi chiedo, ad incensarla altronde.
Aspro non sono a segno, che tollerar l’amore
A un imeneo vicino non sappia il mio rigore;
Ma s’ella il cuore ha ingrato, e voi l’avete insano,
Sdegno l’amor mi desta, e il tollerarlo è vano.
Rinaldo. So che con voi ardito fui di soverchio, il vedo.
Ma una sol grazia, amico, e fia l’estrema, io chiedo.
Fate che una sol volta possa vederla ancora;
Possa parlarle almeno, poi sarò pago allora.
Riccardo. Non bastavi il disprezzo con cui trattovvi audace;
Onte maggiori e insulti aver da lei vi piace?
Rinaldo. Chi sa che ghi occhi miei non destin nel suo petto
Quella pietà, che invano cercai con un viglietto?
Non è una tigre alfine, e son le fere istesse
Flessibili talvolta alle lusinghe anch’esse.
Riccardo. Oh voglia il cielo, e mi escono caldi dal seno i voti,
Che possa in altro stato mirar le due nipoti!
Non se d’armata in campo mio sol fosse il governo,
Tal proverei qual provo agitamento interno.
Questo vi si conceda ultimo dono onesto.
Ma cavalier voi siete; l’ultimo don sia questo. (parte)

SCENA V.

Don Rinaldo solo.

Lo compatisco; a un zio che sta di padre invece.

Che dell’onor si vanta, più tollerar non lece.
E a me chi dà consiglio sì barbaro, sì strano,