Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1911, XIII.djvu/230

224 ATTO SECONDO
Livia.   Chi mi chiama? (destandosi)

Cecchino.   Son io. Chiedo perdono,
Se disturbarvi ardisco...
Livia.   Cecchino! ah, dove sono? (s’alza)
Cecchino. Ho da dirvi una cosa. (Or ora mi bastona), (con Umore)
Livia. Vieni qui, il mio Cecchino.
Cecchino.   (Zitto; la luna è buona).
(s’accosta)
Livia. Crudel, troncasti un sogno ch’empieami di diletto.
Cecchino. Vi recherà piacere maggior questo viglietto.
Livia. Di chi?
Cecchino.   Di don Rinaldo.
Livia.   Ah, che finora i’ fui
In dolce sonno immersa a ragionar con lui!
Cecchino. Il foglio che vi reco, viene utile al bisogno.
Livia. Pria che dal sen mi fugga, vo’ raccontarti il sogno.
Fermati, ascolta, e taci.
Cecchino.   Prima leggete il foglio.
Livia. Lo leggerò, ma il sogno prima narrarti io voglio.
Pareami in bel giardino seder vicino a un fonte,
In cui l’acque s’udivano precipitar dal monte;
E il mormorio dell’onde, e degli augelli il canto
Diviso il cuor tenevami fra la letizia e il pianto.
Pareami all’aure, ai tronchi narrare il mio cordoglio,
Rimproverar me stessa dell’ira e dell’orgoglio;
Ed impetrar dai numi, che mi rendesse amore
L’amante più discreto, più docile il mio cuore.
Quando, (contento estremo!) quando il mio ben si vede
Mesto tra fronda e fronda, e mi si getta al piede:
Eccomi a voi, mi dice, eccomi a voi dinante,
Punite il mio trasporto, sdegnoso, intollerante.
Se mi riuscì l’attendervi noioso all’aere oscuro,
Soffrirò il caldo e il gelo per l’avvenir, lo giuro.
Starò le intere notti a quelle mura intorno;
Sarò, qual più v’aggrada, mesto o ridente il giorno;