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212 ATTO PRIMO
Riccardo. Ah! donna Livia è tale, che da pensar mi diede

Fin da quel dì ch’io fui del di lui padre erede.
Tolsemi il buon germano giovine ancor la morte,
E il fren di due nipoti diedemi in man la sorte.
L’una è docile, umana, ch’è la minor; ma strana.
Ma fantastica è troppo l’altra maggior germana.
Frattanto che sfogavasi quel labbro furibondo.
Che facea donna Rosa?
Cecchino.   Vengo al tomo secondo.
La giovane allo strepito si desta immantinente;
S’alza, e al balcone affacciasi, dove il rumor si sente.
La trova donna Livia, la fa partir sdegnosa,
Entrandole nel capo nuova pazzia gelosa.
Crede con fondamento, cui sostener non vale,
Aver nella germana scoperta una rivale.
Scommetterei la testa, che falso è il suo sospetto.
Riccardo. Deh, non le guasti almeno suora sì strana il petto!
E tu, se al mal esempio presente esser ti vuole,
A condannarlo apprendi, non a seguir sue fole.
Venga a me donna Livia. Vo’ ragionar con lei.
Cecchino. Sentirmi l’altra orecchia stirar io non vorrei.
Riccardo. Non ardirà di farlo. Vanne, obbedisci.
Cecchino.   Andrò.
S ella vorrà toccarmi, son lesto, fuggirò.
Vuol che si spenga il lume? il sol coi raggi suoi
A illuminar principia.
Riccardo.   Sì, spegnere lo puoi.
Cecchino. Andrò, se mi è permesso, a riposare un poco.
Riccardo. È giusto.
Cecchino.   Ma una visita prima vo’ fare al cuoco.
Riccardo. Sappia pria donna Livia da te, ch’io qui l’aspetto.
Cecchino. E s’io la ritrovassi cacciatasi nel letto?
Riccardo. A quest’ora?
Cecchino.   A quest’ora. Ne ha fatto di più belle.
Quante volte si è alzata, che ancor lucean le stelle!