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IL RAGGIRATORE 133


Claudia. È qualche tempo che ho desiderio di sfogarmi un poco colla mia signora figliuola. Da sola a sola non ho voluto farlo, temendo che l’ardir suo e la mia intolleranza mi conducessero a qualche eccesso. Mio marito è come se non ci fosse; non pensa che a rovinare la casa, ed a me lascia il peso della famiglia. Tutto anderebbe bene, mercè la mia direzione, se non avessi una figlia, che mi dà occasione di essere malcontenta.

Metilde. Che cosa le faccio io, che non mi può vedere?

Claudia. Che cosa andate dicendo voi, ch’io attraverso le vostre fortune, che non cerco di collocarvi, che sono una madre tiranna?

Metilde. Sempre, chi riporta, vi aggiugne qualche cosa del suo.

Claudia. Possono avere aggiunto: ma qualche cosa averete detto.

Metilde. Ho detto certo, ho detto.

Conte. Signore mie, non fate che la soverchia delicatezza vi faccia prendere le pagliucce per travi.

Claudia. No, Conte, giacchè ci siamo in questo discorso, contentatevi che si proseguisca.

Conte. Cara donna Claudia, vi supplico non inoltrarvi in un discorso che ora sembrami inopportuno. Fatelo in grazia mia, s’egli è vero che abbiate della bontà per me. (sottovoce a donna Claudia)

Claudia. Voi avete l’arbitrio di comandarmi. Sospenderò per ora.

Conte. Permettetemi ch’io vi dica una cosa, ch’ella non senta. (come sopra)

Claudia. Parlate pure con libertà. (s’accosta colla sedia)

Conte. (Doveva venire poco fa Arlecchino, a recarvi in mio nome un piccolo segno della mia rispettosa memoria; sarebbe egli venuto?) (piano a donna Claudia; e donna Metilde freme)

Claudia. (Non l’ho riveduto dopo la prima volta. Spiacemi v’incomodiate...)

Conte. (Vi supplico di scusarmi).

Claudia. (Se è lecito, di che cosa mi avete voi onorata?)

Conte. (Un picciolo astuccio1 d’Inghilterra con un picciolo finimento d’oro). (È princisbech, ma non importa). (da sè)

  1. Guibert-Orgeas, Zatta ecc.: stucchio.