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114 | ATTO PRIMO |
Arlecchino. In cas de bisogno, a quella putta ghe posso esebir anca mi un tocco della me camera.
Conte. Volete ch’io ve la dica? Senza oltraggiar nessuno, salve le debite proporzioni, siete due capi d’opera.
Dottore. Mi vorreste mettere con colui?1
Arlecchino. No ghe vol miga tropp, sala? Con un per de persutti me dottoro anca mi.
Dottore. Orsù, io non ho volontà questa mattina di precipitare.
Conte. Bravo, signor Dottore, andate da don Eraclio; dategli la nuova dell’imminente perdita del suo palazzo, e fategli la cosa ancora più disperata che non credete.
Dottore. Perchè non volete almeno ch’io lo consoli?
Conte. Perchè verrò io a consolarlo.
Dottore. Vossignoria si farà merito presso di lui, e io non potrò sperar niente.
Conte. Se avete da me, che volete sperare da lui?
Arlecchino. El gh’ha un stomego forte el sior Dottor, capace de degerir tutto, se el magnasse anca da quattro.
Dottore. (È meglio ch’io me ne vada). Signor Conte, la riverisco.
Conte. A rivederci da don Eraclio.
Dottore. La prego di venir presto. Non mi lasci combattere con quel capaccio.
Conte. Cercate anzi di persuaderlo.
Dottore. Se non vi è pericolo, che si persuada: ha una testa di marmo, e vuol quel che vuole, e crede di saper solo più di quello potrebbono saper dieci. Più tosto che aver che fare con lui, vorrei, cospetto di bacco! aver che fare colla più ostinata donna di questo mondo.
Conte. Oh diavolo, che dite mai? Non lo sapete che bestia è la donna ostinata?
Dottore. Lo so, ma vi è il suo rimedio ancora.
Conte. Insegnatemelo, caro Dottore.
- ↑ Zatta: con lui?