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IL RAGGIRATORE 113


Conte. Se perde il palazzo, non gli resta altro da perdere.

Dottore. Suo danno; merita peggio la sua condotta. Pare a lui di essere il primo cavaliere d’Europa; crede che la sua testa sia la più brava testa del mondo.

Conte. È vero, ma non lo vorrei vedere rovinato sì presto.

Dottore. Vossignoria ha della carità per lui.

Conte. Sì, e non poca.

Dottore. Per lui, o per la figliuola?

Conte. Ah Dottor malizioso! Ne sapete più d’amor che di legge, per quel ch’io sento.

Arlecchino. Sior Dottor, no ve stè a intrigar in tel me mestier, che mi no m’intrigo in tel vostro.

Conte. Taci, Arlecchino, che non si stimano quegli uomini che non sanno fare di tutto.

Dottore. Signore, mi maraviglio di voi... (al Conte)

Conte. Caro il mio Dottore, non andate in collera.

Dottore. Io sono un uomo d’onore.

Conte. Tenete una presa di tabacco.

Dottore. E se vossignoria mi perderà il rispetto, in casa sua non ci verrò più.

Conte. Eccovi un zecchino per i vostri passi di ieri.

Dottore. Ora, tornando sul nostro proposito...

Arlecchino. E a mi no se me bada. No voio esser strapazzà in sta maniera.

Conte. Anche voi siete in collera?

Arlecchino. Dei passi ghe n’ho fatto anca mi, dei passi.

Conte. Passi, parole, buoni uffizi, sì, caro Arlecchino.

Arlecchino. E in sta casa no ghe vegnirò più.

Conte. Ho capito. Eccovi mezzo scudo.

Arlecchino. La se comoda col sior Dottor.

Conte. Dunque va male la causa di don Eraclio? (al Dottore)

Dottore. I creditori vogliono in pagamento il palazzo.

Conte. E don Eraclio dove anderà ad alloggiare?

Dottore. Per la figliuola non mancherà una camera in casa del signor Conte.