Gianfranco. Signor, noi non abbiamo bisogno di danaro.
Il vostro patrocinio per or ci sarà caro;
E questo può giovarci più assai delle monete,
Se udir i casi nostri, signor, vi degnerete.
Cavaliere. (Ricusano il danaro? Che stravaganza è questa?) (da sè)
Buona gente, chi siete?
Gianfranco. Quella è una donna onesta;
Io sono un galantuomo. Non siam sposati ancora;
Ma il ciel qui n’ha condotti, e di sposarci è l’ora.
Cavaliere. Veniste in casa mia per fare il matrimonio?
Vi posso, se volete, servir di testimonio.
Alloggio vi darò, se alloggio ricercate;
Basta che l’esser vostro saper voi mi facciate.
Lisaura. Signore, l’esser nostro ignobile non è...
Gianfranco. Deh, lasciate la storia tutta narrare a me.
Cavaliere. Lasciate ch’ei la narri, graziosa pellegrina.
Lisaura. Vostra Eccellenza scusi.
Cavaliere. È civile e bellina.
Gianfranco. Signore, un gran segreto vengo a svelare a voi;
Un prodigio del cielo rileverete in noi.
Schiavo fui fatto in mare da un algerin mercante,
E fui forzato in Tunisi a prendere il turbante.
Feci il corsaro anch’io, girando qua e là,
E poscia di Marocco mi fecero bassà.
A caso nel serraglio, non so dir come, andai;
Vidi quella ragazza, di lei m’innamorai;
Ma disperando altronde poterla conseguire,
Pensai di farla meco da Tunisi fuggire.
Il tempo, il luogo, il modo da noi si concertò;
Or non vi narro il come, un dì vel narrerò.
Bastivi che una notte, sopra una saica uniti,
Siamo con trenta schiavi da Tunisi fuggiti.
Posi nel bastimento tutto l’argento e l’oro:
Abbiam (nessun ci sente), abbiam nosco un tesoro.
In abito succinto andiam di pellegrini,