Lisaura. (Parla piano e mi guarda; che abbia di noi sospetto?)
(da sè)
Fabio. (Che garbata signora! Mi piace quel visetto), (da sè)
Se di me vi degnate, vi fo un cordiale invito.
Gianfranco. Lo gradirà mia moglie.
Fabio. Vostra moglie! Ho capito.
Lisaura. Gradirò, sì signore, la vostra esibizione;
Ma riverir vorrei, se potessi, il padrone.
Fabio. Quello vi preme; in fatti può spender più di me.
Gianfranco. Abbiamo un interesse col Cavalier.
Fabio. Non c’è.
Gianfranco. Ha detto il servitore che e’è, ma ch’è impedito.
Fabio. Allor ci sarà stato; or di casa è sortito.
Gianfranco. Fatemi questa grazia. Signor, siamo viandanti.
Ma non siamo impostori, nè poveri birbanti.
Bisogno non abbiamo di pan per isfamarci.
Sotto di queste spoglie per or dobbiam celarci;
Ma ci farem conoscere. Il Cavalier vogliamo.
Abbiam le credenziali; ei saprà chi noi siamo.
Fabio. Saran, già lo provedo, le vostre credenziali,
Patenti per avere l’alloggio agli ospedali;
Un qualche passaporto carpito altrui di mano,
O qualche privilegio per fare il ciarlatano.
Lisaura. (Questi non fa per noi). (da sè)
Gianfranco. Io non mi scaldo, amico.
Il Cavaliere aspetto.
Fabio. Egli non c’è, vi dico.
Gianfranco. A pranzo tornerà.
Fabio. Non torna in tutto il dì.
Gianfranco. Tornerà questa sera. L’aspetteremo qui.
Fabio. Questa è troppa insolenza.
Lisaura. Via, signor maggiordomo,
Non siate così austero. L’uomo vive dell’uomo.
Siete voi ammogliato?
Fabio. Nol son, per mia fortuna.